Al confine del bianco, Antonio Nesci, Edizioni dell’Aurora, Verona, 2015.

 

 

L’immagine di copertina è un’opera di Giorgio Montanari, intensamente evocatrice: un uomo con un triangolo rosso sul viso, come bendato, è a cavalcioni di una pera e sembra dirigersi verso il pianeta terra, trascinandosi dietro una specie di aquilone. Il risvolto di copertina riporta una bella poesia di Antonio Nesci, ispirata al dipinto, che stabilisce anche sottili collegamenti tra le figure disegnate nell’opera e la sua raccolta di testi. Sul volto dell’uomo c’è la maschera che nasconde e depista, nel sogno o nell’anima o nella realtà (“celandosi il volto/ per rassomigliare/ sempre piú a se stesso”), manifestandosi cosí nella sua molteplicità e fragilità. La maschera, da un lato, è protettiva perché eleva un ponte tra l’essere e il volere essere, acquietando la paura di essere scoperti non esponendo la propria figura rivelatrice di immancabili vulnerabilità; dall’altro lato, è rappresentativa perché esprime la manifestazione del sé universale e la personalità del mascherato non ne è modificata e non è influenzata dalle contingenze. In un volo dentro l’iconografia, il poeta parla dell’uomo con il volto coperto che trascina geometrie di aquiloni, tra la luna e la terra, quasi in cerca dell’effigie del sé, cavalcando un frutto allusivo a viaggi estatici o a autentica cottura d’amore e persino a semplicità.

            Il neo-surrealismo del disegno di copertina si abbina con il titolo stesso della raccolta, “Al confine del bianco”, perché il limite del colore è irreale e suggerisce una frattura enigmatica, sollecitando la domanda: “Che senso ha?” Se ci si limita al suo limite, ci si può chiedere quando, come, dove, quale, e quanto esteso sia il confine del bianco. Quando? Il confine si materializza nell’alternarsi del giorno e della notte, della veglia e del sonno, della realtà e del sogno: è il punto instabile del cambiamento, incardinato con il nostro movimento. Come? L’estremità si avverte nell’assenza della luce o si raggiunge con l’immersione in un’altra, sovrana e immensa, che appare ancora piú bianca di ogni altro bianco e fluisce nella totalità dell’esistente: l’amore e Dio. Dove? La frontiera sta nel luogo determinato dalla verità della poesia, sorgente di illuminazione che ci mette in contatto con la pulsione primordiale dell’universo e ci colma di impeto per innalzare l’anelito all’empireo, vertice della divinità. Quale? Il limite del bianco è molteplice nel suo perpetuo smembrarsi e presentarsi nell’atto unico della fine. Quanto? Un infinitesimo di frequenza, che contiene l’infinito spettro del colore, è la misura della vita e della morte, che ci riporta al confine del bianco ineffabile. Nel titolo si condensa una parte cospicua della poetica di Antonio Nesci.

            La nota introduttiva – “Per una lettura di 'Al confine del bianco'” – è di Ivan Fedeli, che in modo acuto e circostanziato evidenzia alcuni imprescindibili elementi caratterizzanti la raccolta, abbozzando anche qualche aspetto essenziale del percorso poetico dell’autore. La raccolta si compone di due sezioni. La prima è “Mi tingo di rosso”, un preludio che prende il titolo del primo verso dell’epigrafe e sembra centrata sullo scavo dei ricordi, come indica l’epigrafe stessa: “ho il corpo nell’aria e vivo storie di eroe” (p. 9). La seconda costituisce il corpo della raccolta e, a sua volta, è suddivisa in cinque parti, individuate sempre dal primo verso delle corrispondenti epigrafi (l’introduzione con titolo preso dall’epigrafe della sezione, “Quando il cielo progrediva nelle costellazioni”, e le alte quattro sub-sezioni: “Cercami se vuoi, quando”, “Moriamo senza il respiro”, “Nei meandri di sofia”, “Altro era il mio sguardo”). La postfazione è di Paolo Francia che aggiunge altri spunti per la riflessione. Nella quarta di copertina c’è una nota breve e intensa, puntuale e preziosa di Giovanni Capucci.

            I testi di ogni sezione non sono titolati, ma sono numerati in modo un po’ indecifrabile, forse cabalistico. Anche questo suggella una peculiarità dell’autore, che si esprime attraverso finzione e depistaggi: l’attore che recita l’anelito d’amore blandendo il dolore, il mimo che rappresenta il sogno descrivendo disillusioni, l’affabulatore che racconta la realtà mostrandoci l’irrealtà, il cantore che intona sequenze di gesta e di fatti con le iridescenze della fantasia, l’errante che decanta i molteplici viaggi illustrando il giardino di casa che è il suo cuore. L’innocenza dei sentimenti è la cifra volta a cogliere l’intensità della modulazione dei temi che scorrono sangue nelle arterie della passione e della fuga, per non scoprire le carte coperte o per ricombinarle appena scoperte: “mi abbandono/ improvviso alla memoria, io che scrivo/ tutto di me – il bevuto, il mangiato/ l’amato e il dolore –, che pare essere ossa/ sangue e pensiero di me” (p. 11); “nasco nuovo/ in una dimensione di gioco, maschera per un carnevale/ senza coriandoli, senza illusioni, senza faccende,/ solo specchio e ultima idea/ di uomo che racconta, dalle vene ai piedi,/ la sua storia sulla nave ballerina” (p. 14); “Farò di ogni anima mille solstizi,/ poi, inciderò le acerbe attese/ innestando un intimo seme per il tempo distratto” (p. 31). Versi che illuminano l’approccio dell’autore e guidano il lettore nei testi lungo sentieri musicali e attraenti, ritmici e sognanti, favolosi e depistanti, non sempre agevoli e diretti; versi intrisi di luna e sole, di acqua e sale, di terra e stelle, d’amore e dolore.

            La memoria è il luogo di gestazione della coscienza e dell’emersione di bagliori nel buio che attivano nella fucina del cuore le alchímie di frammenti di storie e di immagini nei versi. Ecco alcuni frammenti, “era bello ‘girare’ per Modena,/ con un mazzo di fiori, un indirizzo e in bicicletta/ suonare il campanello, ‘fiorista’, ultimo piano/ senza ascensore,/” (p. 17) oppure “Vendevo caramelle e bibite,/ d’estate, al cinema all’aperto, vendevo/ le mie vacanze alle illusioni” (p. 18), che sono finestre sulle sue professioni giovanili, gli anni furenti per tutti, sia pure con modalità differenti (“non mi ubriacavo mai, perché sapevo dosare/ la quantità massima/ la sofferenza minima, l’illusione/ di poter essere incolume alle tentazioni/”, p. 19). Nonostante la nota dominante sia centrata sul flusso di metafore quasi visionarie, qua e là sono disseminate frasi maieutiche e perfino gnomiche: “Lasciala/ bere la tua radice, lascia che il sangue/ ritrovi la via/ nel pulsare ritmico/ dell’esistenza/ … il susseguirsi dell’ombra/” (p. 21); “Pane che cresce nel lievito antico/ delle mani, cresce e sazia/ la fame di ogni fatica” (p. 25); “forse sapevi già, che anche nei cuori grigi/ c’è aria di primavera” (p. 44); “Transita il respiro acerbo nell’uomo/ che non ha mai smesso di nascere,/ ossigeno puro e farina cruda” (p. 57).

            I testi contengono suggestioni che paiono condurre a uno spazio religioso, anche nel significato mito/psico/logico, come se la fede fosse poesia e la poesia fosse fede, perché entrambe si nutrono d’amore viscerale e universale che eleva alla luce assoluta, la quale tutto contiene e in tutto è contenuta: Dio. Si può evincere dai versi anche una credenza fusionale e misticheggiante, contigua per qualche misura persino al panteismo: l’universo è l’epifania dell’autentico amare. In molte parti si possono rintracciare elementi allusivi al tema, ma il primo e piú esplicito riferimento alla religione è il seguente: “mesi senza cauzione/ in disordine con le passioni … il rimorso che si commuove e si proclama/ innocente davanti/ alla passione delle spine della croce/ … in attesa di … campane della resurrezione/ e la festa che ci nutre/ di essenziale” (p. 45). Vi è, poi, la sub-sezione finale – è un caso che sia posta alla fine? – interamente dedicata all’argomento, come sembra esplicitamente indicare l’epigrafe: “Altro era il mio sguardo,/ quando/ oltre i cancelli del cielo/ coglievo stelle e lune” (p. 81). È composta di quattro poesie. L’ultima termina con una frase, che scolpisce un lato della dinamica evolutiva del suo rapporto con il divino: “ho pregato per la fede che mi resta/ impressa/ nel profondo dell’esistenza” (p. 86). La sua fede sembra problematizzarsi non nelle incoerenze della teologia, ma negli iati dell’esistenza, negli interstizi della sofferenza, nelle lacerazioni dei desideri frustrati, e negli strappi irrimediabili della sorte verso i quali si registra l’impotenza dell’essere. Là, tra quelle antinomie fedele compagna resta la fede che accompagna l’uomo sul sentiero accidentato e tormentato. In tale àmbito si può collocare anche la questione della morte che, come ombra, spunta quasi dappertutto.

            L’amore è il nucleo magmatico di ogni composizione. La via sembra facile e l’oggetto coinvolgente, ma l’apparenza non deve ingannare il lettore, perché l’amore è una chiave che ha vasta molteplicità di significati e contestualizzazioni. Si tenga presente, inoltre, che l’apoftegma preferito dall’autore è “il poeta è un fingitore” (Fernando Pessoa, Autopsicografia, in Una sola moltitudine, Adelphi, 1979), sicché il referente non è mai univoco e immediato: la madre, la moglie, la figlia, la nipote, la poesia, l’arte in genere, l’energia affrancatrice, sé stesso, e persino la divinità. Per esempio, “sentiamoci/ per non smarrire/ la radice che ci ha fiorito/ insieme alla nebbia dell’autunno” (p. 26). Qui il referente si addice a una qualunque delle figure sopra citate: la madre, l’amante, l’universo. L’amore può essere carnale o spirituale, passionale o imperturbabile, filosofico o teologico, psicologico o metalogico: forse non è nessuna di queste cose e tutte queste cose assieme; infatti, in Antonio Nesci l’amore sembra essere la chiave interpretativa del mondo, il nucleo del poetare, il cuore pulsante del pensiero, il centro delle relazioni interpersonali, l’essenza stessa dell’esistenza.

            Il canto è la magia che irretisce l’autore, il canto che non può interrompersi, perché è memoria e alito di vita, rivelazione di sentimenti e sensazioni che portano l’impronta del sé al mondo. La parola stregata è la pozione che trasforma la realtà in sogno e il sogno in realtà, è la formula che è quel che dice e quel che dice non è, è il veicolo che esprime il piacere del suono e il suono del piacere, scatenando reazioni mimetiche che hanno incantato il fingitore, esistente e resistente proprio nel perdersi dentro i suoi versi, dai quali riemerge rinnovato e pronto a nuove immersioni nella fantasia, nella memoria, nel dolore, nelle storie vere o trasfigurate. Spesso nella lettura della sua opera scaturisce un’aura densa che insegue e segue la climax, un crescendo di emozione che vibra nel raccontarsi confabulante sull’orbita di un movimento circolare e spiraliforme, quasi caotico, che riporta verso l’origine allontanando da essa. Non si riesce a rappresentarla con brevi citazioni e, talvolta, non appare nemmeno dalla lettura di un solo testo. I versi fluiscono sempre in forme piane e quasi colloquiali, lasciando una intensa eco nelle immagini, un’atmosfera che irrompe dal tessuto della partitura. L’autore adotta il verso libero e la musicalità è affidata ai ritmi interni del discorso, al suono delle figure, alla modulazione specifica delle parole. Gli effetti dell’andamento espressivo passano nell’enjambement, nella lunghezza dei versi che intonano i battiti del respiro e scandiscono le impronte della narrazione.

            La vulcanica creatività dell’autore imprime una naturale stratificazione delle parti costituenti i testi, che oscillano tra il caotico emergere nella coscienza di fatti con le relative associazioni e l’ordinato disegno strutturato di un progetto comunicativo. Si nota súbito una abile modulazione delle tonalità metriche con oggetti, termini, e traslati; i quali creano d’incanto sensazioni e visioni quasi tattili, una ridda concitata e passionale, una narrazione persistente e musicale. La pulsazione dei testi deriva dall’armonia interna delle sillabe e dal fascino della magia incorporata nelle parole stesse. Il dolore non è estraneo al tocco di corde che vibrano toni accorati ma composti, trilli di euforia temperati dalla commozione, suoni di passioni autentiche disciolte nella disciplina della poesia e nella finzione. Il dolore è talvolta raccoglimento interiore: non affossa la mente, ma scavalca il fosso sfuggendo all’abisso. In quest’opera l’autore spinge il lettore a seguire il viaggio verso il confine di sé, a cogliere l’etereo spazio dove il bianco diventa candore per entrare nell’innocenza dell’essere, a riflettere sui nessi impercettibili tra fatti e coscienza per individuare il mistero delle immagini sulle orme dei passi che percorrono le fratture e le saldature tra i sogni e la realtà.

 

Michele Lalla

 

 

Note sull'autore


Antonio Nesci è nato nel 1948 in Calabria e vive da anni a Modena. 
Ha pubblicato: “La poesia di un sogno” (TEM Modena 1984), 



“Il giorno prima di primavera” (NCE Forlì 1985),  “I miei trentadenari”, con prefazione di Lucio Zinna (NCE Forlì 1990), 



“Mahan (Il posto degli asparagi selvatici)”, con prefazione di Gianfranco Laureano e nota critica di Nicola Amabile (NCE Forlì 1991),



“Nomade dell’immaginario”, con prefazione di Giampaolo Piccari (Forum/Quinta Generazione Forlì 1992), “L’improvvisa voglia di volare di un pesce rosso” con note di Nicola Amabile, Elio Caterina, Paola Lucarini Poggi, Mariella De Santis e Oreste Zoboli (Edizioni images Art & Life Modena 1992),



“Erossore” insieme ai poeti Giovanni Capucci, Paolo Mucchi, Rossano Onano e disegni di Andrea Capucci (Edizioni Images Art & Life Modena 1995), “L’inconsapevole evoluzione della specie”, con prefazione di Gianfranco Lauretano (NCE Forlì 1995),



“Cenere di luna”, con prefazione di Francesco Graziano e post-fazione di Franco Tralli (Edizioni ilfilorosso Rogliano 2002),




“Ciao, 29 febbraio”, insieme ai poeti Giovanni Capucci, Gianpaolo Feriani, Bepi Sartori e Silvano Zorzi (Verona 2004),




“Esercizio di amore”, con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Francesco Graziano (Edizioni “I libri di Damoli” (Verona 2005),





“In zone lontane”, con prefazione di Francesco Graziano e postfazione di Franco Tralli (Edizioni ilfilorosso Rogliano 2006),



insieme ai poeti del Circolo di poesia la Fonte di Ippocrene, ha pubblicato il volume “Andata e ritorno (poesia di un treno)”,



con nota introduttiva di Roberto Alperoli (Edizioni del Cerro Pisa 2006), “La quotidianità dell’infinito”, con prefazione di Gianfranco Lauretano e note di Bepi Sartori e Antonio Boitini (Edizioni del Cerro Pisa 2007),



“Il respiro della sabbia”, con prefazione di Rossano Onano e nota di Giovanni Capucci (Edizioni dell’Aurora Verona 2009),





“Prove di addio – Versi per un canto disperato alla luna” con prefazione di Stefano Mazzacurati e e post-fazione di Michele Lalla, (Edizioni dell’Aurora Verona 2010),




“Andare per lune” con prefazione di Gaetano Marchese e nota di Luigina Guarasci, (Edizioni dell’Aurora Verona 2012),




“La bottega degli arcobaleni” con prefazione di Gianfranco Lauretano e nota di Serena dal Borgo, (Edizioni dell’Aurora Verona 2013) e






“Al confine del bianco” con prefazione di Ivan Fedeli, postfazione di Paolo Francia e nota di Giovanni Capucci.



Sta ultimando le raccolta di poesie di diversi dialetti “a’ m vistèss cume la lûna” e “Cinema Impero e altre visioni”. Sue poesie sono comparse su riviste e antologie, ultima in ordine di tempo, “Nuovi salmi” a cura di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino edizioni CNTN (2013). Inoltre “Il dolore degli ultimi, il respiro del vento” (2011), “Approdi, poesie per il terzo Millennio” (2012),




“Epicentro” (2013), “La donna, il mondo” (2014) e “Madre Terra – Il sogno di uno sviluppo equo e sostenibile (2015), volumi editi da: Consulta libri e progetti, per Associazione Modena per Unesco in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, inoltre è presente nella rivista online “I segreti di Pulcinella”. Per “Il Circolo degli Artisti Modenesi” ha scritto dal 1984, poesie per il Natale. Ha ideato, nel 1985, la Biennale di Poesia delle Scuole Primarie di Modena, iniziativa sviluppata con la collaborazione del Circolo di poesia “La fonte d’Ippocrene” di Modena, che lo porta a “parlare” di poesia, nelle classi e, poi, a raccogliere i “lavori” dei bambini coinvolti. Da allora ha curato la pubblicazione di “La luna sembra una banana accesa” (’92),



“La principessa dei diamanti” (’94),



“Oltre il soffitto della mia classe” (’96),




Ma la luna è la moglie del sole?” (’98),



 “...vai di là... dove c’è la luce” (2000),



  “Parole a Merenda” (2002),



“Il castello delle parole” (2004),



 “Altre voci” (2006), “La mia voce è nell’aria” (2008), “Universi fatti di-versi” (2010), “…forse oggi ho scritto un’altra poesia” (2012) e “Il giardino dell’io” (2014). Collabora come “esperto di poesia” in diverse scuole primarie, secondarie, istituti tecnici e licei, ha lavorato a Modena, Parma, Reggio dell’Emilia, Verona, Cosenza.



Dopo una “intensa frequentazione” del reparto oncologico di pediatria del Policlinico Modena, cura la pubblicazione del volume “Dialoghi con l’anima/parole, colori, sogni/tra corridoi e camici bianchi”, con testi poetici dei bambini del reparto di pediatria e con disegni dei bambini delle scuole del 1° Circolo di Modena (Edizioni Aurora Verona 2008).



Negli a.s. 2009-2010 e 2010-2011 è stato nominato esperto per il PON F2 Scrittura creativa presso l’Istituzione scolastica: Liceo Artistico I.T.A. Tommasi di Cosenza. Nel 2002-2003-2004, con l’istituto comprensivo di Peri (Dolcé, Rivalta,Volargne e Peri) ha collaborato nelle scuole locali per la pubblicazione dei volumi “Giovani poeti in Valdadige” (Edizioni “I libri di Damoli” Verona 2003 e 2004). Nel maggio 2007 ha curato, dopo aver lavorato nelle classi, il volume “Ho toccato il sole”, raccolta di poesie dei bambini di Maranello che hanno partecipato alla I Biennale delle scuole primarie, esperienza ripetuta nell’anno scolastico 2008-09 con la pubblicazione del volume “Nella mia matita c’è una storia” e nell’a.s. 2010-2011, il volume “Il sapore del cielo” raccolta di poesie della III Biennale di Maranello. Nel 2008 è uscito il video libro, “La mia voce oltre il vento”, esperienza interdisciplinare che ha coinvolto tutte le classi della scuola media di Vigasio (VR). In collaborazione con l’associazione Culturale il filorosso, il Comune di Rogliano, la Provincia di Cosenza e la Regione Calabria, ha condotto, laboratori di poesia, che hanno consentito la pubblicazione dei volumi: “Ho dipinto la mia casa di rosso” (2007), “La luna nel pozzo” (2008),) “Faccio collezioni di sorrisi” (2009), “…il mare l’ho inventato io” (2010), “Sono come il filo dell’aquilone” (2011) e “Il cielo l’ho inventato io” (2013). Per la rivista “Images Art & Life”, ha curato le rubriche “Poesia e Poeti” e “Poeti e Poesia”, in cui sono comparse le interviste e i testi di poeti contemporanei tra cui: Nicola Amabile, Tolmino Baldassarri, Giorgio Barberi Squarotti, Alberto Bertoni, Mariella Bettarini, Alberta Bigagli, Ninnj di Stefano Busà, Giovanni Capucci, Domenico Cara, Pier Carpi, Corrado Costa, Mariella de Santis, Flavio Ermini, Ubaldo Giacomucci, Mara Giovine, Grazia Lenise, Franco Loi, Mario Luzi, Francesco Mandrino, Franco Manescalchi, Jean Jacques Meric, Rossano Onano, Silvio Ramat, Roberto Roversi, Paolo Ruffilli, Roberto Sanesi, Carlo Alberto Sitta, Massimo Scrignoli, Selim Tietto, Franco Tralli e Lucio Zinna; inoltre presso la stessa casa editrice ha diretto le collane di poesia “I poeti della Fonte” e “I poeti della luna”. Collabora inoltre con la rivista di poesia “ilfilorosso”. Ha collaborato a percorsi di poesia nella Casa di lavoro di Saliceta S. Giuliano e nelle Carceri di Sant’Anna, sempre a Modena, con la pubblicazione dei volumi “Orologi rotti” e ”“Oltre le sbarre, con testi poetici dei detenuti e del gruppo che ha contribuito alla realizzazione del progetto.



 Esperienza ripresentata alle classi del carcere di Sant’Anna, che dopo un intenso “lavoro poetico”, sono state pubblicate, grazie al contributo dell’assessorato alle politiche sociali del comune di Modena, le raccolte “Noi dentro” per l’anno scolastico 2007-08 e per l’a.s. 2008-09 “Sogni, illusioni e aria…”. Ha curato un progetto di poesia presso la comunità “Torre Muza” di Modena e la pubblicazione del libro “Libere parole, almeno quelle” con testi degli ospiti della stessa comunità (Edizioni Aurora Verona 2008).



Ha all’attivo numerose performance poetiche: “Una città: sedici poeti e un fotografo” con i poeti de “La fonte d’Ippocrene” e il fotografo Beppe Zagaglia, presentazione di Franco Loi e nota introduttiva di Luciano Pavarotti, presso Teatro Storchi - Modena; “La poesia contemporanea nel luogo dove è nata la poesia italiana del novecento”, a Firenze Bar delle Giubbe Rosse; “Poesia musicata”; a Modena Circolo Wienna; “A cena da Emily” e “Acque”, a Modena Circoli & Cortili; “Le piume di cristallo” Forte Napoleonico e “Giallo calendula”, Teatro dell’Imprevisto, entrambi ad Alessandria; “Poesia e voce”, a Mirandola Circolo Acquaragia; “La voce degli apostoli…”, a Verona Ristorante 12 apostoli; “Il treno della poesia” (viaggio delle lingue dialettali attraverso una immaginaria stazione), Teatro di Riolo Terme; “Cile e altro ancora”, a Bologna sede Amnesty International.


------------------------------


Le Recensioni

IL RESPIRO DELLA SABBIA
Antonio Nesci
Edizioni dell’Aurora, Verona, 2009.


La luna e la sabbia di Antonio di Bergerac

I poeti hanno questo di bello: quando si spiegano in prosa, è difficile capirli. Antonio Nesci mi fa leggere Il respiro della sabbia. Gli chiedo la ragione del titolo. “Bella domanda”, mi risponde sorpreso dalla gratuità della stessa, e spiega qualcosa riguardo al bisogno che l’uomo ha di amore, contrapposto alla quotidianità che soffoca la libera espressione del sentimento. “Allora il tuo bisogno d’amore è percepito male, e tu rinunci; sei come lo struzzo che nasconde la testa nella sabbia”. Faccio di sì con la testa per educazione e affetto d’amico, per far vedere che ho capito. Mi sembra, per la verità, la più antica delle percezioni nevrotiche, lo scarto conflittuale che esiste fra la fantasia e la sublimazione (ciò che Antonio chiama “bisogno d’amore”) e l’attinenza ai dati di realtà. Leggo, e trovo altro. Anzitutto il bisogno di mitologizzare,
attraverso un linguaggio di metafore talora fornite di spigolosità epiche, ed insieme una salutare infantile regressione. Attitudine, quest’ultima, utilizzata costantemente nei confronti dell’immagine femminile, con richiami di sensibilità archeologica che fanno della donna la grande madre terrestre, Cibele dalle cento mammelle oppure Cerere (nell’uva del tuo corpo), con proiezione diacronica verso lo stilnovismo, fino alla percezione attuale della donna sensorialmente incombente, appetitiva, mantide religiosa. Sarebbe riduttivo a questo proposito rifarsi unicamente a tematiche edipiche irrisolte, per Antonio Nesci come per tutti noi, del resto. Antonio fornisce una chiave di lettura aggiuntiva e tardo romantica, con il ricorso alla figura di Cyrano di Bergerac. In questo modo la nevrosi di Nesci (conflitto intrapsichico fra bisogno di sublimare l’amore e oggettiva necessità di praticarlo, ovvero fra cielo e terra) diventa “rappresentazione” oggettivata di un conflitto relazionale, a due, fra il poeta e la donna, Cerere o mantide che sia. Nel lavoro drammatico di Rostand, Cyrano parla d’amore a Rossane all’ombra della notte (la luna), lasciando il campo all’amico poeticamente sprovveduto, Cristiano, per la pratica amorosa di natura terrestre (nel titolo: la sabbia). L’artificio creativo di Antonio Nesci consiste nel risolvere il conflitto relazionale riconducendolo, per via di ambiguità poetica, al conflitto intrapsichico attraverso un meccanismo di doppia identificazione. Nesci è nello stesso tempo Cyrano (la luna) e l’amico sprovveduto in poesia ma consumatore terrestre dell’amore (la
sabbia). Rossane, sul balcone, continua ad essere Cerere o Madonna o mantide, ascolta e consuma. Diversamente dal Cyrano di Rostand, che introduce Cristiano, Nesci (Cyrano) introduce se stesso (Cristiano). Fortunatamente per la poesia, il conflitto resta irrisolto: perché Antonio di Bergerac, diventando Cristiano, delude se stesso. Delude, sembra di capire, la stessa Rossane: la quale, assaggiando Antonio/Cristiano praticante d’amore, fornisce indicazioni chiarissime circa il rimpianto che prova per Antonio/Cyrano che d’amore parla alla luna. Sotto questo aspetto, il poema di Nesci ripropone il conflitto fra l’attitudine dell’uomo al sogno e l’applicazione alla pratica terrestre. Ma è, soprattutto, il poema del desiderio d’amore, destinato a non essere mai congiunto alla pratica della sessualità: perché quando si parla d’amore non si consuma; e quando si consuma non si desidera. La luna e la sabbia sono faccende fra loro temporalmente inconciliabili. Vale la pena ricordare che Cyrano di Bergerac, poeta e spadaccino, a metà del ‘600 scrisse una deliziosa storia fantastica: Voyage dans la lune.

Rossano Onano


Quarta di copertina

La poesia di Antonio Nesci è da sempre poesia in divenire, nel solco della “poièsi”, ovvero del fare, della elaborazione del momento creativo dello spirito, ma anche del rimescolamento di quel magma sanguigno e ameboide che gli ribolle in corpo e che non può trattenere. Che è cosa ancora più evidente da parecchio tempo, da quando, con cadenza annua, Nesci esce allo scoperto con una raccolta di materiali poetici, in cui la sostanza predominante è un costante “esercizio di amore” elaborato “in zone lontane” o nella “quotidianità dell’infinito”, sempre sotto l’enigmatico occhio della luna come nume tutelare. Nel conseguente caleidoscopico specchio prismatico, si dipana il sentire del poeta, ma i segreti della poesia si svelano solo nel momento della lettura, addirittura diversi ogni volta, secondo la capacità interpretativa che il cuore di ognuno ha delle cose e della vita. Così il dono della poesia ci viene consegnato immancabilmente attraverso il mistero della parola. Antonio Nesci ne è dispensatore, conscio ed inconscio al tempo stesso, a piene mani.

Giovanni Capucci



La raccolta di poesie è divisa in tre sezioni: (1) Ora tutto è silenzio con 74 testi senza titolo e numerati progressivamente, (2) Respiriamo ancora il rumore della notte che tormenta con 57 testi come sopra, (3) Dammi la tua voce con 19 testi come sopra. Vi sono versi isolati in corsivo che ricorrono con periodicità irregolare e poterebbero anche interpretarsi come proferiti da una seconda voce che interagisce con il discorso amoroso; stimoli giunti da lontano che anelano a vicinanze, o viceversa, che chiedono partecipazione all’afflato emotivo o respingono contatti o sospendono il processo di fusione evocato dalle immagini. I corsivi suonano il tempo del silenzio nel discorso interminabile e la ripresa dell’interruzione, come note che sollecitano la prosecuzione del canto. A un tratto si legge «Il tuo nome fiorisce nel rosso/ di un papavero: ti accende il viso» (p. 17) e viene il primo dubbio: non è l’amata, ma è l’autore che parla perché è una espressione che si addice più all’uomo che alla donna; ma il dubbio si corrobora, falsificando definitivamente l’ipotesi, quando si giunge a «Ora come ora/ mi sento impreparato alle non risposte» (p. 34). Il corsivo sembra, quindi, più una evidenziazione di contenuto, che di voce recitante o più un alter ego che un altro ego.

Tale struttura è tenuta insieme da un titolo con due parole chiave: respiro e sabbia. Il respiro è aria che si inspira e si trasforma in noi, è trasformata da noi, e ci trasforma in quel battito d’ala che esala il viaggio pneumatico del palpito del cuore espirando l’interno verso l’esterno che tornerà all’interno. Questo processo incessante e continuo è movimento di vita, è l’assoluto presente della vita, è la necessità imperativa per vivere e occorre reiterarlo, come l’Amore. La sabbia è o deserto o area di confine tra la terra e il mare; quella zona desertica dove l’acqua è assenza o quella striscia di separazione dove l’acqua è in perenne movimento con intensità diverse: dall’essere appena percettibile all’essere impetuosità incontenibile. Come l’Amore. Il titolo connota, così, il contenuto attraverso i tre elementi fisici che nella filosofia delle origini costituivano l’universo, è l’amore è il nostro universo anche quando non è in noi o tra noi. Il quarto elemento, il fuoco, arde nei testi e è ancora l’Amore che funge da unificatore, arché, unità, amalgama e rappresenta l’èpos della raccolta. L’amore è la misura dei versi, è la cifra della scrittura, è la voce del canto e «canta ogni pensiero, il tuo sapore/ diventa farfalla aquilone …/ canta il sogno di rondini all’alba» (p. 18), è il generatore delle immagini, «è sbornia di cielo/ che tenta di rubare/ goccia su goccia/ ogni tuo sorriso» (p. 17). L’Amore è totalità, è poesia, è forza creatrice di versi: è come se parlare d’amore sia fare poesia e fare poesia sia parlare d’amore. Un fatto intrinseco alla natura umana, anche quando si manifesta con il suo opposto: l’odio che, come si dice comunemente, è l’altra faccia dell’amore.

Sull’amore è stato detto tutto e scriverne è rischioso perché è difficile trovare la cifra per raccontarlo, ma non si smetterà mai di scrivere e parlare d’amore perché per vivere c’è bisogno d’amore e l’Amore vive del bisogno in quel mitologico connubio di Poros (guado, passaggio, via) e Penía (povertà, mancanza, penuria), si attua attraverso l’attualità dei suoi protagonisti, l’espressione degli attori che lo vivono nelle placide tempeste dei sentimenti. Il suo vivere è anche nel canto sicché rappresentarlo comporta un senso di teatralità dell’immagine e della parola. E Antonio Nesci ha trovato una modalità che sopporta il rischio e regge la scena, una scena sostenuta da parole semplici e immagini non scontate: «la luna si è sbiadita/ goccia tra gocce/ desiderio di traccia» (p. 15), «Ogni notte entra nelle vene/ un canto, pane fresco, urlo sulla luna» (p. 18), «e domando fili sonori e fiato/ all’acrobata della luna/ per il mio stesso gioco, che diventa assenza/ della mia ombra» (p. 46). La luna è una protagonista della sua poesia e illumina con dolcezza le penombre dei pensieri e dei percorsi difficili, le malinconie delle solitudini e degli abbandoni, le nostalgie dell’infanzia e delle distanze, gli scarti tra i sogni e la realtà: «La primavera regala fiori alla luna» (p. 27), «quando ognuno/ ha già cantato/ alla luna serenate» (p. 30), «È cocomero rosso/ la luna questa sera e sa ascoltare». Il linguaggio semplice, ma, in realtà, elaborato attentamente per conseguire sia musicalità e sia delicatezza di immagini, costruisce una gradazione cromatica e tonale godibile. Non è proprio in armonia con talune concezioni dell’espressione poetica che paiono più austere/ esigenti/ innovative e sono spesso intrise di intransigenza e esclusivismo perché è l’arte che richiede una applicazione pressoché ossessiva dalla quale conseguono inevitabilmente forti manie e idiosincrasie. Anche la semplicità ha, però, la sua intransigenza e irremovibilità: il semplice per il semplice, il comprensibile per il comprensibile, il canto per il canto.

I testi parlano dell’amore che non si realizza, che sfugge, che lascia in un deserto di sabbia: «Ora tutto è silenzio»; ma si reagisce al nulla nella ricerca spasmodica dell’incontro, del rapporto con l’altro che diventa lo specchio di sé, la via che riporta a sé cosicché l’Amore diventa sapere (sophía), discorso (lògos), verità (alètheia), e sembra non scienza (epistéme), ma è la base della scienza della vita perché si può vivere senza amore, forse, ma la vita è più grigia. Allora, l’Amore è cosmo e caos, è identità e differenza, è vita e morte (sottilmente insieme). morte nella continua trasformazione perché ora è vicino e ora è lontano, morte nell’essere vero che diventa falso, presenza che si trasforma in assenza, incontro che volge allo scontro: «sordo ululato dell’angoscia/ e sei madre di tutte le follie» (p. 56), «e acuto torna il dolore di avere amato il nulla/ di avere dato faccia e peso/ al vuoto e all’apparenza» (p. 57). L’Amore è vita nell’esplosione di forze insopprimibili che coarta al canto e che velatamente nasconde il suo opposto (la morte) che porta al disincanto.

Dai versi si scorge continuamente i polimorfici volti dell’amore, in senso mitologico Eros, che si manifestano nelle molteplici varietà e multiformità dei sentimenti. Lo struggimento nostalgico (póthos) «Resta amara la bocca/ e il vuoto amplifica l’esistenza …/ nessun’altra è stata costola parlante/ delle mie tenere albe … quando/ dall’angolo di fuga/ tornavo a cercare il sapore di ogni tuo respiro» (p. 42). La brama (hímeros), «Ti ho accarezzata stanotte/ cercavo sogni d’acqua e l’emozione di una fiaba. Non ho dormito, stanotte, per guardarti» (p. 18), «provo desiderio/ a pensare a te/ e sento che sei ancora/ nelle mie vene mare che respira» (p. 26). La corrispondenza reale (antéros) e rara: «io e te/ mescolati nell’aria che per noi respira eternamente/ insieme per fingerci universo/ e anima della stessa anima» (p. 54), ma il fingersi può essere una finzione o un desiderio insoddisfatto. L’agàpe o convivio: «Ma ho ancora fame e sete», «il tuo pane di cuore/ ancora caldo di legna/ nutre/ nell’alba di parole e carta» (p. 75). La philía, come passione e mania, è difficile da districare tra le varie gradazioni perché si assomiglia molto alla brama; pertanto, si cita l’unica poesia in dialetto come suo elemento residuale: «Aju uocchj e pinzieri pe ttia/ a matina quandu u suli s’appiccia di russu/ cuomu nu fuocu ca vruscia chijano chijano» (p. 2). Anche la caritas si manifesta più raramente tra le pulsioni tempestose dell’amore che prevalgono sulle forze attivate da questa virtù che spinge all’azione con l’egida del disinteresse: «dell’inferno conosco/ il fuoco e il giudizio,/ eppure mai taglierei il lungo filo dell’arcobaleno/ e le rose e l’edera» (p. 62).

L’Amore scorre in tutti versi e si fa lentamente oggetto negli oggetti, poi irrealtà, trasparenza, mito e meta irraggiungibile o raggiunta in ogni momento proprio nell’atto del raggiungerla. L’Amore diventa specchio del poeta, mentre l’amante si fa più diafana perché è in quel fiume continuo di immagini che trova il suo respiro condensandosi nella sabbia delle sue rive che lo contengono palpitanti di affetto e trepidazione, di sollecitudine e sentimento. L’Amore sta oltre l’amata che funge da pretesto per il testo sulla vita, sul canto della bellezza delle parole e delle immagini. Una atmosfera che gravita nell’aria sulla corda del cuore e si corrobora anche con la malinconia dello struggimento per l’attesa e l’assenza. Infatti, verso la conclusione scrive che «la poesia è il mio io/ letta solo in altro modo» (p. 77) perché la poesia è la vita di Antonio Nesci e l’altro modo di leggerlo è tutto da scoprire, ma le congetture le lasciamo al lettore invitato a navigare attraverso una ricchezza espressiva sorprendente nella semplicità, fresca nell’audacia, vivace nella calma, dolce nell’amaro dell’assenza, e perfino gioiosa anche nel dolore che lascia la separazione perché lo stupore emergente dalle immagini usate per descriverlo lo eleva in una sfera intangibile e lontana, lo elabora per renderlo digeribile.

Michele Lalla



Antonio Nesci ha un rapporto molto stretto con la luna, tanto che piccole particelle di essa si fondono tra le righe di molti suoi versi fino a renderli luminosi “Fra le mie carte la luna si è sbiadita/goccia tra gocce/desiderio di traccia,/solco del cuore. Il respiro della sabbia”, l’ultima fatica di Antonio, incanta per disperazione e ammalia per profusione di passione e desiderio inestinto. La dialogicità amore/dolore-cielo/terra, diventano le sinopie sanguigne di un affresco affidato a una parola che inventa, incurva, alterna ma soprattutto colora la tavolozza del sentimento (Pag. 35-50-64-71). L’amore disancorato che trasmette la poesia di Antonio è effimera, sfuggente, ma nello stesso tempo fedele ad un progetto di eterno innamoramento. Da taluni versi sgorga l’amarezza dell’inappagato, di ciò che sembra raggiunto e si rivela irraggiungibile. Come la stessa luna.
Sauro Roveda




Oggi pomeriggio e non appena libero da impegni, mi sono rifugiato tra i libri. L’occhio s’è posato non a caso su uno di poesia a firma di un amico. – Questa è la volta buona, - mi sono detto ad alta voce. E l’ho sorseggiato con piena soddisfazione, pari a quella dell’assetato in vista d’una sorgente d’alta montagna. Con gli autori, a volte, sono scontroso perché ho già in mente ciò che in loro, io desidero trovare. Non è facile imbattersi in un vero artista, completo, maturo, geniale specialmente tra i poeti.
La fortuna ha voluto serbarmi una sorpresa con l’incontro d’Antonio Nesci, bravo e molto scontroso più di me. È come un ricco giacimento autogestito sempre pronto ad immettere sul mercato un’improvvida quantità di materiale. Per la verità, nella sua ricca produzione non mancano le pepite d’oro, come questo ultimo libro preso in esame. Qui l’intento del poeta è fermare la realtà che sfugge via in un attimo dopo il suo apparire. Non interessa tanto il fatto in sé, ma la scia di sensazioni che lascia in eredità sia al fortunato sia allo sfortunato protagonista di turno. Antonio Nesci, insieme artefice o destinatario dell’esistente che si trasforma di continuo. Egli avverte l’urgenza di ancorare il tempo ormai passato al rosario dei ricordi e canta l’amore salvandolo dall’effimero, dal silenzio, dal nulla. Sapessi quanto è lungo / il pensiero di te / nel mio cuore a godere i battiti di cielo / e mare e tempo: siamo una follia / rara /di braccia e labbra. L’ancora di salvezza non può che essere la passione, quella che incanta stordisce i sensi sino alla soglia dell’estasi o che imbavaglia la ragione per farla tacere perché voce stonata, fuori tempo, inutile al bisogno. Nesci pizzica il nervo scoperto quale corda vitale, e lo fa con pudore del canto: Amare ancora / per essere vivo / e sentire il fluire /delle cose.
L’invocazione assomiglia ad una preghiera bisbigliata a capo chino, come nota musicale semplice quanto efficace. La primavera regala fiori alla luna / lontana. Ed io canto /l’ultima voce che dentro s’addensa./ Canto il tuo profumo / e indosso il colore di un sorriso. La vita reale ci aspetta al varco vincolante al presente. Ogni cosa pare ricominciare proprio dal nastro di partenza. Molti saranno gli assenti e fra questi i tanti vinti dalla dipendenza del ricordo che avvince ma non disseta. La nostra storia è stata un respiro / lungo quanto l’orizzonte…bellissima poi…/ la storia non è stata più storia…/ solo assenza, filo smarrito al grido timido del vento. L’emotività tende a rinchiuderci nella spirale del piacere il cui principio è surrogare in toto la sterile verità.
Attraverso la poesia, egli vince di slancio l’inerzia della rassegnazione e vi riesce con la grazia del richiamo lirico, bello e struggente insieme. I versi della raccolta rivelano in Nesci, un poeta compiuto e sicuro, che si butta a capo fitto nell’affrontare la complessità monotematica dell’amore perduto. Mette sotto l’indagine i vari aspetti dell’esperienza appena conclusa mediante l’ausilio d’una forte introspezione. Il risultato raggiunto è di gran suggestione, respiro, commozione.
Antonio Nesci è in possesso d’un patrimonio lessicale di notevole originalità, sicché il suo ricco estro poetico non sfugge all’attenzione del lettore, al pari della maestria formale impreziosita sia da armonia di suoni sia di metafore. Assomiglia ad un cavallo da corsa, puro sangue, che scalpita, ha fretta, morde il freno pur di correre con eleganza di stile.
Franco Gollini




Lui, lei, un unico respiro. Non importa se la donna, forse, è solo metaforica, anche le muse sono veli nel turbine della sensibilità umana. Lei, lui oltre il salice di nebbia dove il mare si è richiuso, il poeta cerca ancora di seguire le orme sulla sabbia, illuminate dall’amica luna, compagna di mille notti nell'attesa di un saluto.
E quando non vede comparire il mattino, rimane disteso nel suo amore, pur sapendo che la notte non da speranze. Lui, lei in viaggio con mille parole dette e ascoltare. Con mille respiri d’amore che pian piano diventano illusioni e tutto si dissolve, lasciando solo un filo smarrito al grido timido del vento.
E nel sonno gli occhi di lei come se fossero le lune della sua vita. Come se uno sguardo potesse fermare il tempo che allontana i sogni, stanotte nel sonno ti ho guardata. Questo non è un semplice libro d’amore, sono poesie di un abbraccio, di una partenza. Fuggire dunque, andare via oltre le parole che ancora risuonano come echi lontani, anime di carta stagnola riflessa. Così il poeta attende che il vento porti la sua vela distante da dove il cuore a scavato un rifugio, gridando che non è lui a fuggire, non è lui che a remare senza sosta, ma un pezzo di luna, un profumo d’acacia. E scende sul suo viso la malinconia, acuto torna il dolore di aver amato il nulla. Occhi pieni che non sfociano in mare, aculei sul cuscino dei sogni e tanta nostalgia di qualcosa che poteva essere, invece non rimane che dolore. In sostanza, il poeta urla attraverso l’inchiostro e la carta che la passione può finire, può finire il bene, l’amore no, anche se ha un peso enorme nel cammino solitario verso il domani.

Elio Caterina



Ho letto Il respiro della sabbia e vi ho trovato numerose corrispondenze fra noi, il mare e il volo, in particolare, e poi quanto cielo e ancora l'acqua in tutte le sue forme, e rondini, rose, calicantus, i profumi di questa Terra... e del caffè, pure di quello insipido...
E' stata una lettura gradevolissima!

Non so se ho ben compreso, ti sarebbe piaciuto un parere sulla tua poesia in generale, sulla poesia letta domenica scorsa o sul poemetto d'amore che è fra le mie mani?
Sulla tua poesia in generale sarebbe un grave azzardo per me, dato che ho scorso la tua bibliografia, della poesia letta in sala, la 51 della seconda sezione del volume, penso che è un capolavoro, non ho termini diversi per definirne la potenza descrittiva, la sintesi, la profondità, lo stile di questo testo.
Circa il poemetto, che dire, non sono per niente un critico letterario, forse potrei con grande sincerità semplicemente elencarti i miei passi preferiti delle tre sezioni e sono:
La strofa 2, la 3, la 15, la 19, la 25, l’incipit, in particolare, della 29; ho trovato bellissime la 30, la 32, mi sono innamorata della 34, dell'acqua salata e di quella dolce, pure sotto forma di neve, della 35; sono rimasta impressionata dagli occhi degli angeli della 39, dalla forza dirompente della 43, della 49, dalla quiete 'apparente' della 51; verità trovo nella 69; apprezzo e condivido il discorso, anche filosofico sull'esistenza che si legge nelle poesie 71 e 72.
Della seconda sezione ho preferito i testi numero 2, il 9, l'11 (il mio numero del cuore!), condivido pienamente quanto affermi nel 15; per quanto riguarda il 16, nell'ultimo verso c'è forse un refuso?
Del 22, in particolare, ho trovato folgorante il corsivo finale, il 24 me lo sarò riletto dieci volte, il testo 25 è un autentico 'sollucchero' e sarebbe tutto da musicare; ho amato il 27 e il 28, nel 33 trovo meravigliosi in particolar modo gli ultimi tre versi; ho apprezzato molto il 34, il 35, il 38 e il 40, la poesia numero 47 è troppo bella, come pure lo sono i versi di chiusura del testo 50, della straordinaria 51 ho già detto.
Dell'ultima sezione "Dammi la tua voce" ho preferito il mare, il cielo e la barca della VII, le 'atmosfere' pregnanti e un po' misteriose della VIII, il nitore della XI e della XVI, ma è splendida tutta l'ultima pagina del libro e l'ultimo suo verso è un diamante di chiusura incastonato.
Riconosco nel tuo dettato poetico una capacità introspettiva e una chiarezza eccezionali.
Perdona la corsa di questa mia risposta, ovvio che si potrebbe dire moltissimo altro ancora e chissà se ci riuscirei, ma desideravo riscriverti subito

Lucia Gaddo Zanovello

-------


DIALOGHI DELL’ANIMA: PAURE, SPERANZE, 
SENTIMENTI DEI BAMBINI RICOVERATI AL POLICLINICO
Aurora Edizioni, Verona 2008.

Dialoghi con l’Anima rappresenta il risultato di una sfida: scrivere di poesia in un luogo apparentemente così lontano da questa forma espressiva e artistica come l’ospedale. In realtà le corsie ospedaliere, con il loro concentrato di sofferenza, dolore, ansia, paura, speranza sono un terreno fertile per il germogliare di sentimenti forti, per lo sgorgare di emozioni autentiche che stanno alla base della ispirazione poetica. Se poi i protagonisti della sfida, i poeti, sono i bambini ricoverati in ospedale il risultato non può che essere toccante e suggestivo. È nata così l’idea di utilizzare la poesia per rafforzare un dialogo tra i bambini ospitati al Policlinico e quelli delle scuole, riannodando fil rouge che si è andato consolidando nel tempo.

Le insegnanti dello <Spazio Scuola> del Policlinico – Carla Ferri e Marisa Sverberi – hanno così coinvolto Antonio Nesci, poeta modenese di grande esperienza e umanità, maturate con i bambini delle scuole, in questo percorso con i bambini ricoverati nelle Strutture complesse di Pediatria, Chirurgia Pediatrica e Oncoematologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena. Il progetto (che significativamente si intitola: La poesia per conoscermi e conoscerci) è poi divenuto un libro, grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e all’ASEOP, dopo aver ottenuto il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica.

La poesia è un potente veicolo per le emozioni ed i sentimenti. Poetare aiuta a comprendere meglio sé stessi e a dare una forma ai propri fantasmi che, così, possono essere affrontati più serenamente. Questo vale ancor di più se sull’ispirazione della Musa salgono bambini ricoverati in ospedale, che partecipano quindi di una dimensione di vita distaccata rispetto a quella dei propri coetanei, costretti come sono a coabitare quotidianamente con la sofferenza, la paura, l’ignoto. “Perché le grandi emozioni generate da una malattia possano essere veicolate verso la poesia è necessario l’aiuto di un esperto. – spiegano Carla Ferri e Marisa Sverberi -. Così nel progetto è stato coinvolto Antonio Nesci. Col suo sapiente aiuto emozioni, sentimenti, sogni, paure e speranze dei bambini si sono tramutate in versi capaci di incidere e scuotere e di avvicinarci all’essenza della vita, permettendoci di cogliere le cose importanti al di là delle sovrastrutture che la società moderna ci obbliga a considerare fondamentali. Per questo il volume verrà distribuito ai bambini e ai ragazzi delle scuole per aiutarli a comprendere meglio il valore ed il significato della vita”.

I bambini di alcune classi delle scuole elementari del Circolo I di Modena, cui appartiene anche lo <Spazio Scuola> del Policlinico hanno poi illustrato queste poesie con disegni, creando un connubio, un intreccio tra versi ed immagini che immerge il lettore in una realtà colma di voglia di vivere e che trasuda della forza morale di questi bambini.

In verità, una delle poesie contenute nel libro è già stata letta in una scuola. Si tratta di ... di un pensiero per il mare di Salvatore che è giunta quasi per caso in una scuola della Romagna i cui alunni hanno letto e commentato il testo aprendo un dialogo col suo autore: “Si! Cerco la mia strada / più azzurra possibile / perché io sono al centro di questo mare nero / a volte profondo, inutile quasi / come il male che mi comprime...”.

“I poeti di questo libro – racconta Antonio Nesci – sono solitamente sdraiati e ascoltano i loro pensieri, la propria anima e lo fanno in modo differente dal “normale quotidiano” di una scuola. Eppure l’inconsapevole che vive in ciascuno di noi riesce a dare forma all’illusione e tutto diventa speranza, voglia di liberare e liberarsi per un volo tranquillo, ma anche e soprattutto avventuroso, almeno nella profondità della propria anima. Io ho registrato le loro emozioni e li ho aiutati a trasformarle in poesie senza mai snaturare il sentimento che le aveva fatte germogliare”.

Dialoghi dell’anima si presenta così come un viaggio di parola e immagini nella paura, nella sofferenza, ma anche nei sogni e nel desiderio di vivere.

Cinquantaquattro poesie che raccontano altrettante storie di vita vissuta o semplicemente agognata, versi di straordinaria bellezza e di intima naturalezza, scritti da bambini dai 5 ai 15 anni grazie all’aiuto di Antonio Nesci. Tra queste poesie ve n’è una (Di una madre sradicata di vicenza attraverso l’amore) scritta da Stefania che ha voluto esprimere ciò che aveva dentro: “la mia casa che non è fatta di mura / non è fatta di tetti, ma di cuore amore).

Ci sono metafore che si ripetono ossessivamente in questi versi, il buio e la luce, la selva oscura, la paura, il sentirsi prigionieri, la voglia di volare. Versi che mostrano una voglia di vivere contagiosa che, al termine della lettura lasciano il segno in maniera indelebile. “Noi medici ci occupiamo del dolore fisico che può essere misurato, che deve essere sedato. Antonio Nesci da’ voce all’oscura profondità di un dolore senza nome”. Ha detto la professoressa Fiorella Balli, direttore della Struttura Complessa di Pediatria.

“Mamma fammi luce illumina questa mia foresta fitta e scura” scrive Andrea nel brano Di una vita. Di paura parlano anche Eleonora “Sono una pallina che gioca nell’aria e fugge per paura di restare ferma. Ho paura della mia stessa paura” (Di un amore), Ines “Sto pensando al poi, quando sola / sentirò la paura / e cercherò l’abbraccio di mia madre / e il suo cuore che insieme al mio / diventeranno musica e amore... / e guardando i suoi occhi e il suo volto / vedrò il mio angelo custode” (Di un’attesa) e Fabiana “io non ho paura, ma a volte / mi prende e cerco di non pensare / La speranza è dentro al io cuore” (Di una città). “Non ho paura / mi lascio andare / divento aquilone / torno me stesso e canto i miei sogni / galoppando nella libertà” è il forte messaggio di speranza di Filippo in Del Mare. “Sono qui in questo letto di sofferenza / e vorrei essere a scuola / sentire le voci / dei miei compagni, qui...” spera Jacopo in Di un giorno non felice. Mare. “...la notte, invece ho paura di sognare / la mia malattia, e allora canto” ci racconta Sharon in La Danza, il disegno e il canto.

La solitudine è un’altra sgradita compagna della malattia. “Avrei voglia di parlare con i miei amici / dire quanto di è soli / in un letto come questo, correi giocare a carte, / parlare e correre.... essere in compagnia....” si lamenta Andrea (Figlio del cielo e del mare). Essa si accompagna alla malinconia quando si è stranieri in un luogo alieno anche se in Italia si è trovata una famiglia: “dico buonanotte a mia madre / e con il ricordo costruisco quella rimasta in Eritrea / e anche a lei dico buonanotte con un bacio” racconta Lewam (Di un pensiero).

Federico esprime la frustrazione di sentirsi prigioniero e il desiderio di libertà “Sono triste per questa malattia / ha preso troppo attimi della mia vita / e mi sento un aquilone / legato ad un filo troppo corto / non posso volare / dove io voglio...” (Di un Libero). Il tema del sentirsi prigionieri accomuna anche Luca “Sono come prigioniero / dentro questo corridoio / non vedo il mondo, gli amici” racconta (Di una noia... quando non riesco a volare), Francesca “Mi manca / il sentire il gusto delle cose, della vita / e vorrei tornare / ad essere viva nel cuore” (Dialogo) e Lorenzo “Mi chiamo Lorenzo, un bambino / che si sente prigioniero quando sta in questo letto / con questi macchinari che mi danno medicine / come fosse pane e marmellata” ( Dialogo). Giulia è “quasi felice di andare a scuola / tornare a casa, essere nella mia quotidianità” ma vorrebbe “Essere libera... essere un cavallo / che corre e non si ferma mai”, la chiosa di questa poesia è un insegnamento meraviglioso: “Eppure se dovessi cambiare / non so se metterei una mia amica al mio posto / lei soffrirebbe, morirebbe più di me” Amore... per esprimere ciò che sento in un modo diverso.

Altri bambini hanno parlato della loro malattia e del percorso interiore che ha generato in loro. Silvia in Di una libera speranza ci racconta: “Solo nella malattia ho trovato la mia verità / e se penso a Dio... il dottore c’era... / è stato lui a farmi guarire...” e ancora “ricordo la sofferenza, il dolore / le preghiere ....e poi ancora la sofferenza...” ma anche “la consapevolezza / dell’amore di chi ci respira accanto” e il desiderio che “il mio sangue / sia sano... pulito... rosso come il fuoco / come la stessa vita che m’accompagna / si forse c’è anche un po’ di speranza”. E Vanessa “Quando vedo un bambino che piange / io sorrido, cercando di asciugare la sua lacrima / perché ricordo quando io ho sofferto / ho un sogno tornare come prima / ammalata di solo raffreddore” (Di un posto da vivere).

La forza di questi brani, però, sta nel fatto che in essi quasi mai traspare lo scoramento e l’autocommiserazione mentre, al contrario, la voglia di vivere e la capacità, e forse anche il bisogno, di esprimere gioia è potente e contagiosa. “Sono felice di questa mia emozione / di essere ancora bambina / capace di sognare un principe azzurro / che con il suo cavallo / mi porti in un cielo fatato per ascoltare ogni parola” dice Giulia (Di un cielo e l’attesa di un sogno). “Quello che più colpisce lavorando con i bambini è la loro incredibile capacità di ripresa – spiega il professor Paolo Paolucci, direttore della Struttura Complessa di Pediatria ad indirizzo oncoematologico – un momento sono distrutti dalla durezza della terapia, un attimo dopo sono già lì che hanno voglia di giocare e scherzare”.

Come si vede da questi pochi stralci – non una selezione per merito ma un esempio del contenuto del libro – la sofferenza, la voglia di libertà, la rabbia e la paura sono sentimenti che si alternano alla riflessione, alla speranza, a una gioia di vivere che non viene domata dal dolore fisico e dalla costrizione.

“L’ospedale nasce come luogo di cura e assistenza, un luogo di sofferenza. Ebbene, oggi questo ospedale, attraverso l’amore e la passione per il loro lavoro di medici, infermieri e insegnanti vuole dare al bambino ricoverato la possibilità abbattere le barriere che li separano dal resto del mondo, dai loro affetti, e di esternare liberamente, per quanto la loro condizione lo consenta, i propri sentimenti, trasformando le quattro mura colorate della stanza in un ambiente di condivisione, creatività ed ingegno per andare oltre la malattia e la quotidiana fatica del combatterla”. Ha detto il dottor Stefano Cencetti, direttore generale del Policlinico.

Questo libro nasce come percorso didattico per i bambini ricoverati ma è una testimonianza di vita che, come ha affermato Erio Bagni di ASEOP “stimoli nei ragazzi il desiderio di solidarietà nei confronti dei loro compagni meno fortunati”.


2 ottobre 2008
Servizio Rapporti con l’Informazione


-------

DIALOGHI CON L'ANIMA
PAROLE, COLORI E SOGNI
TRA CORRIDOI E CAMICI BIANCHI

1
Così mi ritrovo in mano un libro di poesie, un catalogo d’arte, una “cosa” che sarebbe inadeguato, anzi, offensivo chiamare “oggetto”. Sì, perché chi sa di filosofia conosce la fondamentale distinzione che Heidegger stabilisce, una volta per tutte, tra cosa e oggetto.
L’“oggetto” è tutto il reale inscritto nella relazione performativa della soggettività trascendentale, cioè della volontà che progetta, prevede, programma, produce, confeziona, specula, vende, consuma ed in-fine, cioè nello statuto del suo fine, elimina. L’oggetto è, infatti e senza dubbio, il protagonista del Contemporaneo in quanto macchina che pre-vede, pre-determina, concretizza e destina tutto alla Discarica. La Discarica – macro-categoria filosofica della nostra epoca – non è solo la fine degli oggetti, ma ne costituisce, ante litteram, la destinazione finale, la causa finale, direbbe Aristotele. La Discarica è certamente uno dei massimi problemi del nostro modo di fare mondo nella misura in cui è già a monte un orizzonte di pensabilità del nostro modo di abitare la terra, tutto intonato sul registro del consumo del mondo.
Ma tutt’altra cosa è la “cosa” che ho in mano, ed è per tutt’altro mondo. La “cosa”, ripensando all’Heidegger sia di Saggi e discorsi sia di Che cosa significa pensare?, ha invece la caratteristica iniziatica della intrapresa di avventura, possiede la valenza di apertura di possibilità; in una parola, la “cosa” ha la potenza di coseggiare. Il coseggiare è del rosso del pettirosso, è della tela di ragno in controluce che pare tessuta dal mistero per accogliere il primo raggio del giorno che nasce, il coseggiare è di una poesia, o anche solo di un verso, che continua a lavorare l’interno ridonandolo come anima, ecc. La “cosa”, allora, dona alla vista un nuovo modo di vedere, stimola il pensiero verso un’apertura nei confronti dell’impensato e offre al cuore un nuovo timbro di sensibilità.
Ecco, non appena Antonio Nesci mi ha messo in mano questa “cosa”, Dialoghi con l’anima, subito ho ricevuto l’impressione che iniziasse a coseggiare, e neppure per un attimo mi è parso un semplice oggetto. Sfogliandolo, poi, così, ancora con semplice curiosità, si faceva spazio la sensazione di un tempo altro dalla mera curiosità; si trattava, piuttosto, di un tempo capace di accogliere il kairos, tempo che direi dell’opportunità che si accompagna alla grazia. Intendo quella sensazione, insieme intellettuale ed emozionale, di un tempo che si desidera rivivere, che gioiosamente si ri-accoglierebbe perché tempo promettente frutti, sorprese, doni.
È bello essere nati, quando si vivono attimi portatori di dono.

2
Credo che la grazia, laicamente intesa, sia questa disponibilità ad ospitare e vivere il tempo aurorale, che è pur sempre tempo mortale, ma non perciò è meno denso di aperture al dono, alla sorpresa, e non perciò ignora la auroralità della relazione.
E a proposito di auroralità di relazione, voglio precisare che uso questo termine in senso forte, ontologico e non solo psicologico. Lo uso anche in senso specifico, sentendo la cosa che ho tra le mani, infatti ciò che questo testo concretizza è il gioco di relazioni tra bimbi diversi, tra ambienti differenti, tra forme espressive per lo più disgiunte. Entrano in relazione creativa e colloquiano tra loro stanze di ospedale con aule scolastiche e, in retroscena, infermiere, medici con personale parascolastico e maestri.
La segreta filigrana di questa opera è già nella escogitazione della struttura stessa del pensiero che sta a monte e del progetto che, a costo di non poche difficoltà, ha preso corpo negli autori di questo libro “coseggiante” di poesia e arte. Ne sono artefici bimbi provenienti da tutt’Italia e ricoverati in pediatria, talora anche per lunghe degenze come nel reparto di oncoematologia pediatrica, e invitati, affascinati a scrivere poesie da Antonio Nesci. Poi, sorprendentemente nasce, insieme, alle maestre Carla Ferri e Marisa Sverberi dello Spazio Scuola, un’idea: dare le poesie scritte ad altri bimbi, quelli delle classi del I Circolo Didattico di Modena a cui appartiene la scuola ospedaliera, perché su di esse compongano disegni, pitture, opere, per ricordarli, per rallegrarli, per fare circolare del bene materializzatosi in doni visivi.
E così, selezionando tra gli innumerevoli disegni ne è uscito un libro trasbordante di immagini e colori freschi ed ingenui, patetici fino alla commozione, dove patetici (da pàthein) indica la capacità di presentificare a costo della sofferenza o della gioia un retromondo insieme velato e rivelato.

3
I disegni e le pitture non sono illustrative, e questo è un colpo gobbo straordinario, perché bisogna sapere che capita che i bimbi pur ritenendo di fare una cosa mettono luogo a un’altra o meglio, e sempre, alla loro complessità. Perciò anche credendo di illustrare, reinventano il mondo giocando (e giocandosi) la totalità del loro essere, senza risparmio e senza reduplicazione – tale è la loro potenza espressiva fino a che è ancora soggiogata dal magma interiore, almeno in parte, in-disciplinato, in-formale, stuporosamente in-dominato, in una parola, originario.
In ragione di questa originarietà è iniquo inscrivere le poesie e i disegni dei bimbi nell’ermeneutica della rappresentazione che, soprattutto nella Modernità tecnico-scientifica costituisce, all’opposto, il dispositivo più potente dell’intervento settoriale della soggettività dominante, il modulo a priori della forza di colonizzazione, disciplina per disciplina, del mondo. I bimbi, dunque, non rappresentano, ma portano a presenza, senza raddoppi formali, senza volontà di valore aggiunto, la tonalità emotiva del loro essere.
Devo dire che, proprio per la potenza alternativa dei linguaggi dei bimbi, quest’opera che ho tra le mani è un vero tesoro, perché ha del sorprendente, anzi dell’originale. E Dialoghi con l’anima originale lo è in senso profondo, cioè in quanto è capace di originare un nuovo modo di vedere i rapporti umani, un modo creativo di stare al mondo, fatto di una solidarietà non tanto ideologica, quanto sorgiva, ingenua, in grado di sposare l’innocente. Innocente, insegna Nietzsche, ben prima che un dato morale o del carattere è un elemento ontologico: è l’immediatezza del proprio essere prima di ogni calcolo della soggettività nuocente; l’in-nocenza (non-nocenza) è l’incapacità di portare nuocimento da parte di chi è nell’immediatezza della propria totalità, di chi, perciò, è originariamente in comunione con se stesso. E in questo libro-cosa c’è una comunione del tutto ideata e, insieme, fattiva, concretizzata, dunque, possibile. Quest’opera sta a dire che l’utopia non è il non-luogo (ou-tòpos), ma è il-di-più del luogo; è la realtà irriducibile alla sua mera datità, è la vita che è più dell’esistenza, è l’anima che è più della psiche, perché, semmai, è la psiche nell’Aperto della parola ad-veniente e del segno e del colore donati.


4
Antonio Nesci ci dice che anche fuori dai dispositivi di potere e dalle macchine disciplinari è possibile fare mondo, è possibile fare bello il mondo, e farlo intenso e profondo. È possibile l’andamento opposto al consumo del mondo, consumo che presuppone a monte l’andamento di separazione e settorializzazione delle conoscenze e delle imprese. Il nostro mondo ci riduce a mosse specifiche; sono sempre e solo una mossa di un sistema stratificato di sezioni che mi sfugge, che non posso dominare e rispetto al quale sono portato a sospendere il giudizio critico e di responsabilità. Qui, invece, l’andamento è opposto: si parte da un ambiente, un settore, i bimbi in un reparto di malattie gravi e mortali, ma proprio per le caratteristiche del mondo infantile e per la natura dei linguaggi poetici ed artistici, si va a provocare la messa in gioco della totalità emozionale e fantastica e relazionale dell’infanzia nel suo complesso. Qui la mossa settoriale non deresponsabilizza, non isola, non alimenta il consumo e la logica della Discarica.
Ho in mano un manifesto della possibilità di creare relazioni creative concrete di affetto e di emozione reciproca tra bimbi diversi, tra bimbi malati e bimbi sani, e questo è un annuncio meraviglioso nei nostri giorni attraversati dall’insensibilità verso le diversità, dall’arroganza dell’egoismo e del qualunquismo, dal malevolo e sciatto consumismo.
Rispetto alla logica-mondo, che emargina il dolore e che isola la sofferenza, anche quando enigmaticamente colpisce gli innocenti, rispetto al mondo come emergenza e realtà bellica generalizzata, Antonio Nesci, come Odisseo del giorno nello sfinimento di una guerra infinita – ché tale è la prospettiva dell’oggi entro cui siamo nati e dalla nascita ci battiamo– escogita un’ideazione formidabile e che potrebbe rivelarsi vincente, un cavallo di Troia sacrale e formidabile; perché come poeta avrebbe potuto, con talento riconosciuto, parlare dell’innocenza, ma come stratega escogita lo stratagemma di fare parlare l’innocenza, di fare dipingere il mondo dall’innocenza e di mettere in relazione queste due radicali forme espressive dell’infanzia.
Ma questo non è tutto; geniale è l’idea di mettere in relazione e riconsiderare come totalità organica ciò che la logica disciplinare dominante divide e separa: l’infanzia malata da quella sana. Nesci nella sua opera ha riprodotto un mondo come totalità possibile della parte dolorosa, isolata, in eventualità di venire stroncata nel più bello del suo sbocciare alla vita e dell’infanzia sana, fantasticamente giocosa e immaginifica. E “un mondo” – Derrida lo afferma in Ogni volta unica, la fine del mondo parlando specificamente del lutto, ma questo vale sempre quando è in gioco la vita e la morte – “è sempre tutto il mondo. Un mondo, quello della sofferenza dell’innocenza, proprio per la sua unicità, è tutto il possibile modo di essere mondo del mondo in quell’unicità.
Escogita e decide, dunque, di non parlare del dolore dell’infanzia, di non esercitare la fantasia sull’infanzia colpita dalla paura e dalla malattia, ma di dare parole, colori e segni alla fantasia dei bimbi immersi nel dolore. Il dolore in generale, ma il dolore dei bimbi segnatamente, ben lungi da ogni sentimentalismo, è un dolore universale, e assurge a dolore teologico. Le domande che induce sono, infatti, esistenzialisticamente, le più profonde ed enigmatiche; sono domande che rivelano l’essenza stessa del domandare filosofico, rispetto al quale le risposte di congedo dal domandare non fanno, per lo più, che consolidare il mero opinare.

5
A monte di questa opera sta un colpo di genio strategico, perché il prodotto appartiene all’impensato: il dolore, le paure, i desideri dei bimbi trascolorano in fantasie struggenti, acquistano con una naturalezza sorprendente lo statuto ontologico del sogno, si trasmutano in immaginazioni stuporose e li rigenerano in una fenomenologia fiabesca che, mentre è ancora tutta da pensare, ecco è già qui provocante e seducente come una cosa che coseggia, come un frutto gustoso e profumato e che, sorprendentemente, porta dentro i semi della propria avventura.
Alcuni esempi, alcuni versi di fenomenologia sognante del dolore infantile fiabescamente rinchiuso nell’enigma della degenza:

"Chiedo alla luna di illuminare la tua stanza

Per cancellare la paura del buio"

Eleonora


"Ho chiesto al vento di portarti una brezza

Leggera e di farti volare là… dove stanno

Tutti i tuoi sogni più belli"

Sara


"Voglio che nei tuoi pensieri

Non scenda mai la notte"

Elena

"Vorrei che le tue paure volassero via come

le foglie in autunno…

verrà presto la primavera e i tuoi sogni

fioriranno."


Eleonora



"Il sole mi ha regalato il tuo sorriso…

Io l’ho messo in un palloncino l’ho fatto

Volare… Adesso è tuo…"


Emma


"Quando guardo la mia mamma,

penso al suo volo

perché l’immagino aquila e mi sento libero

nelle sue braccia e vorrei che mi portasse

nei miei sogni lontani"

Enrico 


"Sono una pallina


che gioca nell’aria

e fugge per paura di restare ferma

ho paura della mia stessa paura…"

Eleonora

6
È un libro-cosa che si dà da pensare, che chiede condivisione e cioè innanzitutto ascolto. L’ascolto esige una conversione e un cambio di prospettiva incredibile rispetto al tempo tutto registrato sul consumo di velocità. C’è bisogno per l’ascolto di un tempo rallentato che, guarda caso, è ben più consono al tempo che la malattia impone ai bimbi della lunga degenza. Nell’ascolto, e aggiungerei nel silenzio (dei telefonini e dei televisori e dei videogiochi, tanto per cominciare a dare nome ad alcuni dispositivi di precettazione delle cose e di riduzione delle cose ad oggetti) si potrebbe cogliere il messaggio poetico, trasfigurato, trascolorato di bimbi che vivono nella paura del loro male il quale li sovrasta, immobilizza i loro piccoli corpi e, insieme, toglie ai loro grandi sogni l’onnipotenza del desiderio e la potenza della realtà.
Lette così non poche di queste poesie divengono strazianti per la loro illuminante carica rivelativa dello stupore fin fiabesco della vita e assai esigenti nella loro richiesta di essere rilette, ripensate insieme, messe in mano ad amici per un passa-parola capace di ricostituzione di realtà.
Eccone alcuni frammenti:

"… io amo il giallo che è come il giorno,

la notte, invece, ho paura di sognare

la mia malattia…

pensieri confusi che parlano di me,

timida e chiusa come una conchiglia

trovata in un giorno di gennaio

fra i sassi del mare."

Sharon



"…io che voglio volare

fino a stancarmi,

volare sulle nuvole paffute come la faccia di Mario…

Il mio nome non mi piace perché mi sento sola

Non s’incontra mai nessuno che ha il mio nome

Solo il cielo… il mare."

Azzurra



"Se io fossi un fiore vorrei essere una rosa rossa

Che quando sfiorisce diventa farfalla

e alla sera prima di addormentarmi

dico buona notte a mia madre

e con il ricordo costruisco quella rimasta in Eritrea

e anche a lei dico buona notte con un bacio

e mi piace immaginare di essere in alto per vedere

le cose piccole, così posso sentirmi grande."

Lewam



8
Un esempio, dove la bimba, che si trova dentro al bosco dei lupi, si trasforma in fata e diviene la potenza dello stupore del mondo, ché tale è la fata nella sua essenza, e dove, quasi non bastasse, senza soluzione di continuità, la fata diviene l’oggettivazione della sua stessa potenza creativa: il desiderio di divenire tutti i bimbi cioè il mondo intero. La bimba diventa la fata con le ali e con la bacchetta magica rosa che è la forma stessa della grazia del mondo nel coseggiare delle cose, libere dalle paure del mondo.
Ed ecco che la bimba, così d’incanto, ricrea la realtà e tutto il suo potenziale di paura in mondo bello da vivere e in vita bella da mondeggiare; i lupi, i sassi che ostacolano e sono durissimi, le frecce si trasmutano in bimbi, in bolle di sapone e in fiori. Il rapporto con la madre esplode come un mondo di doni e di bellezza, la madre che è paradigma di ogni relazione amorosa e promuovente sulla terra – il mondo che ogni bimbo si aspetta di essere chiamato a vivere.
E c’è tutta la paura delle notti in ospedale esorcizzata nell’onnipotenza metamorfica del desiderio di ricreare il mondo senza più paure e senza l’angoscia di essere divorata dai lupi – angoscia realissima come temibilissimi sono i lupi che solo gli adulti non vogliono vedere perché temono l’enigma aggressivo della morte:

"La mia mamma dipinge

anch’io dipingo boschi e fate e lupi

poi divento fata e bambini…

Questo è il bosco dei lupi…io sono

la fata con le ali e ho la bacchetta magica

rosa e trasformo i lupi in bambini

e i sassi in bolle di sapone

e le frecce in fiori.

Regalo fiori gialli alla mia mamma

che è bella cento volte.

È una fata più grande

mia madre è il sole, io la luna

e faccio venire la notte, così i lupi

rimangiano i bambini

e poi

io trasformo i lupi

ancora in bambini."

Elettra, 

9
Gli adulti per lo più pensano di avere l’esclusiva dello sguardo analitico della realtà e dunque di possedere lo sguardo essenziale; gli adulti rivendicano lo sguardo scientifico sul bimbo, che, anzi, pare a loro per lo più distratto, immerso nel gioco, vagante nel suo mondo irreale, fluttuante nel fiabesco. Ma lo sguardo scientifico non è lo sguardo essenziale; la lunga malattia e la degenza forzata nella clinica prodigiosamente inverte le parti fino a dotare il bimbo di un punto sorprendente di penetrazione e acume totalizzante. Il bimbo non ha più mondo esterno alla madre e non la può più perdere d’occhio un istante, neppure quando dorme o pare distrarsi. Il suo è uno sguardo ontologico che la osserva anche quando lei non lo guarda e che vede nello sguardo di lei il suo stesso infinito desiderio di volare via dalla stanza chiusa ed enigmatica dell’ospedale, e sente che l’essere dei due esseri è sempre più proprio il medesimo desiderio di entrambi, di volare via, la madre col bimbo, il bimbo con la madre:

"Quando guardo la mia mamma,

penso al suo volo

perché l’immagino aquila e mi sento libero

nelle sue braccia e vorrei che mi portasse

nei miei sogni lontani"

Sogna di essere il più forte degli esseri viventi e di sgominare, anzi di mangiare tutti gli esseri cattivi, compresi, inconsciamente, ma in modo poeticamente rivelativo, tutte quelle malvagie e prolif(i)eranti cellule cancerogene che gli fagocitano il sangue e glielo fanno andare in acqua.

"Io amo gli animali e mi piacerebbe

Essere un Tirex, il più forte… vorrei essere il re

Di un esercito di dinosauri carnivori,

mangerei i più cattivi"

Ma ecco che l’onnipotenza del sentimento è ancora la più profonda fra le potenze del bambino, addirittura più complessa e totale della stessa fantasia, che pure è così salutifera, perché è per la fantasia che ogni metamorfosi è alla portata di mano e ogni contraddizione oggettiva è risolvibile in una permutazione fiabesca di tono. Tuttavia il sentimento, in un solo apparente ripiegamento, in realtà si tratta di un suo approfondimento, anche se contrastato rispetto al mondo fantastico puro, continua:

"ma se dovessi

davvero scegliere vorrei restare bambino

per mia madre, che è bella come un fiore,

come un tulipano

dai colori di cielo e di sole,"

E continua l’inno alla bellezza che il primo Platone ben sapeva essere l’idea cardine e la potenza che muove la melodia del mondo e le armonie dell’universo. Nel Simposio ritorna come un ritornello la relazione radicale di amore e bellezza. E il bimbo poeta-filosofo continua con l’inno all’amore della bellezza e alla bellezza dell’amore, inno che pur straziante fino all’indicibile per la madre che ha tra le braccia la sua creatura compromessa forse radicalmente, è il balsamo più prezioso e salutifero che un bimbo possa donare a sua madre – vero e proprio testamento inverso:

"mia madre resta la più bella…

il tulipano colorato di fantasia,

l’aquila dei miei voli

e la vorrei stringere forte e gridare il mio amore…

e di quanto la amo, e dire che resta la più bella

più della stessa Alessia… la bambina che gioca con me,

e che a volte mi fa arrabbiare."

Enrico

10
Un elemento di fascino rapinoso di questa poetica sorgiva è l’innocente libertà di esprimere e significare prima e al di là dell’ingombrante presenza del Soggetto forte, consapevole, tutto reduplicazione del reale, tutto calcolo operativo.
Qui siamo in assenza di quel Soggetto coloniale la cui lucidità sulle cose è sempre speculare e speculativa. L’io che barluma ha la sostanza dei sogni, la filigrana dei desideri.
Qui la sorgiva non è neanche recuperata dal labor limae del silenzio e del distanziamento dalla chiacchiera del reale, che pure caratterizza un aspetto saliente del poeta adulto.
Qui, come nel sogno, la realtà si dà immediatamente identica a se stessa, e la forza e la potenza del verso non sono il frutto della conquista intellettuale, non sono il punto d’arrivo del travaglio dell’artificio dell’arte.
Sono piuttosto parole tanto potenti quanto indifese, sono sentimenti tanto prorompenti quanto inermi, e la consistenza di questi mondi è la preziosa, perfetta delicatezza delle bolle di sapone. Guai toccare queste parole. Cambiare anche poco è perdere tutto. In questo senso portano in sé stesse il sacro.
Ecco alcune bolle di sapone, alcuni frammenti o orme del sacro:

"Abito a Cirò Marina…e la mia casa è vicina al mare.

Voglio bene alla mamma

Perché profuma di mare,

è bello il profumo del mare

e quando lo sento

mi tuffo nelle sue braccia,

sento il mio cuore che dice

ti voglio bene mamma."

Antonio


"Nel pozzo dei miei desideri

riflessa canta la luna.

Vicino a me

Mia madre, la mia felicità."

Sulamita


Nel frammento di poesia che segue (accidenti!), dove l’aquilone non può volare a causa del filo troppo corto, sembra quasi che la bolla di sapone non riesca a staccarsi dal soffio senza scoppiare. Liberare / la mia anima, infatti, a causa della mancanza di filo, può intendersi, più che come realizzazione, compiutezza, perfezione, come sconfinante bisogno di un’altra vita.
"…sono triste per questa malattia,

ha preso troppi attimi alla mia vita

e mi sento un aquilone

legato ad un filo troppo corto

non posso volare

dove io voglio, dove vorrei liberare

la mia anima…"

Federico 

In questa bolla di sapone tutto è alla deriva e c’è il mondo rovesciato e barluma alla fine l’impossibile possibilità dell’amore; c’è solo, insieme totale e dimesso, il desiderio di un frammento amoroso di vita quotidiana, il sogno di infrangere la solitudine della malattia:

"…e il vento profuma di rose,

le stesse che ho regalato a Chiara

in un giorno lontano, lo ricordo

come fosse oggi, quel giorno,

ho chiamato Chiara e ho sussurrato

ti voglio bene”, ed io,

rosso come la stessa rosa

e con il cuore che batteva veloce,

ero emozionato, innamorato…

a volte penso a Chiara, qui nella mia solitudine

penso alla mia mano nella sua, mentre,

senza parlare, guardiamo un film…"

Federico

L’esperienza del sangue colora tutto di rosso, la vita e il mondo di questi bimbi sempre alle prese di flebo, prelievi e cruenze. Anche questa zuccherata bolla gronda di sangue, ma in essa tenace fa capolino una spericolata immaginazione, dove la speranza fa tutt’uno con la fiabesca potenza della magia, del miracolo della liberazione dalla malattia. Allora, la mamma che è dolce come lo zucchero può ridare una vita dolce da vivere.

"È rosso il mio colore,

mi ricorda il sangue, la vita, ma se devo scegliere

tra il rosso e il verde

scelgo il verde perché è la speranza

così anche la mia mamma

può diventare una maga

e fare le magie.

Lei è dolce come lo zucchero."

Vanessa


11 Nella poesia Il cielo è irraggiungibile c’è tutta la claustrofobia della degenza e il senso della perdita dell’Aperto, del cielo, del movimento della vita, del tempo del gioco e dell’esplorazione del mondo.
Sogno ad occhi aperti e desiderio si risvoltano dall’interno l’un l’altro in una straziante evidenza esistenziale di impossibilità di essere il proprio corpo. In questa poesia di Giulia, una bimbetta che la malattia impaccia e blocca, i movimenti fondamentali del correre, del saltare, del giocare insieme i giochi dinamici dei bimbi di tutti i tempi e di tutte le latitudini della terra – talmente naturali i movimenti del corpo che tutti danno per scontato senza neppure avvedersene – sono la realtà del sogno e il sogno di realtà.

"Il cielo è irraggiungibile e molto lontano

perché non si fa toccare 

Essere libera…è quello che mi manca

vorrei essere un cavallo

che corre, corre e non si ferma mai…

un cavallo perché io ho sempre avuto

problemi fisici, non ho mai potuto correre

come gli altri, fare le cose che fanno gli altri,

correre come gli altri è il mio sogno…

il cielo è irraggiungibile,

lontano da me, forse perché non riesco a vederlo

abbastanza, forse perché non riesco a toccarlo

e avrei voglia di essere come un cavallo

che corre continuamente."

L’impossibile felicità di poter passare un giorno con Federico, mano nella mano, è già di un desiderio trasognato ad occhi spalancati, ma dove prende inizio la caduta degli dèi dell’onnipotenza del desiderio e dove barluma la macchina della consapevolezza etica: l’intrasferibilità (tanto eticamente nobile quanto ontologicamente straziante) della malattia in un’amica.
"avrei voglia di essere qualcos’altro,

di immaginarmi un giorno da poter passare con Federico

mano nella mano e camminare

e cantare magari una canzone che dica

viva la vita…
Eppure se dovessi cambiare

Non so se metterei una mia amica al mio posto

lei soffrirebbe, morirebbe più di me…"

Giulia

12
La presenza onninvadente della malattia nello spazio e nel tempo della degenza finisce per incrinare la fiducia nell’onnipotenza della mamma, a liberare gli spettri del terrorifico e del mostruoso, alberi del terrore che aggravano la malattia di ulteriore sofferenza. Si instaurano così piani inquietanti di riflessione e di argomentazione.

"Qualche volta faccio sogni brutti,

chiamo la mamma e dice che sono solo sogni

e che non esistono brutti mostri e neppure

alberi del terrore, ma io so che gli alberi

sono senza foglie e hanno gli occhi e la bocca

e se ne stanno sempre fuori… a fare paura alla gente."

Davide



Casa volpaia
12 settembre 2008


Lorenzo Barani


-------------



I MIEI TRENTADENARI

NCE, Forli - 1990


Conosco abbastanza bene Lucio Zinna (per sintonia di tenerezze disilluse, io credo, insieme ad alcune scontrose analogie di carattere) per sapere che lo scrittore siciliano, autore tra l'altro di un inquietante romanzo-verità nel quale si adombra l'ipotesi che Ippolito Nievo possa essere finito dolosamente vittima della propria mazziniana e già allora anacronistica dirittura morale, non potrebbe mai adattarsi alla funzione di presentare un autore nuovo per pura civiltà di mestiere, senza essere convinto della giustizia della propria azione padrinale.  Ciò va detto a merito di Antonio Nesci, autore calabrese da parecchi anni residente a Modena, che Zinna tiene appunto a

battesimo per il volume di poesie edito dalla NCE, dal suggestivo titolo testamentario “I miei trenta denari”. Lucio Zinna offre la sua attenta, e suggestiva, lettura della poesia di Nesci, individuando in essa il tema centrale della compressione (esogena, e quindi di fatto oppressione) dell'autenticità del sentire: La poesia di Antonio Nesci ruota attorno ad un elemento centrale, che tuttavia non si presenta come tale, ma che tale diventa, di fatto, in quanto ricorrente (ed in maniera a volte insistita) nelle pieghe stesse della silloge: la compressione dei sentimenti, in una civiltà massificata e consumistica) come la nostra. E allora: La compressione dei sentimenti - e dei sogni - a cui l’individuo, soggetto (nella spirale produzione-consumo, nella rincorsa ad un benessere materiale contrabbandato quale garante di una qualità della vita...) e la dispersione/ diluizione del naturale impulso ludico-fantastico..., covano dentro inavvertite, rendendo brumosa la circostante atmosfera. E' il dolore, sempre, che riscatta l'uomo ad ogni caligine: Fino a quando non insorga, fievole e via via più prepotente, la consapevolezza della fondamentale innaturalità di una siffatta condizione esistenziale...(Ho venduto / la libertà a un mercante di sogni; in cambio / mi ha dato un cielo di cartapesta). All'uomo, rimangono in mano le monete del baratto, i trenta denari che sono, e non sono esattamente, quelli della tragedia iscariota: sono, dice il poeta, i "miei" trenta denari, con una piena assunzione, già in titulo, di una responsabilità in prima persona. Sono crudele emblema di quel baratto con cui si è creduto di poter svendere i sogni per i cieli di cartapesta. E, con i sogni, si è barattata anche la nostra innocenza primigenia, con quel che ne consegue: i grandi messaggi d'amore, che segnano tappe decisive nel cammino di questa povera umanità più propensa a perdersi che a redimersi; la fallace possibilità di poter vivere senza motivanti illusioni. Come dire: senza poesia. E cioè: Zinna pone l'accento sopra una sorta di ossimoro esistenziale, secondo il quale sarebbe l'ineffabile sentimento di perdita della poesia a spingere Nesci, fra stasi (di ripensamento) ed impennate (liriche ), alla ragionata funzione del poetare, ove la parola poetica - benché - sia sempre ed opportunamente essenzializzata -va liberandosi. Si de-comprime, articolandosi in un più azzardato (ma anche limpido) gioco di metafore. La ricchezza della poesia,noi sappiamo, consiste precisamente nella proposizione di una complicità fra l'autore e il lettore, con quest'ultimo sollecitato ad essere coautore dell'atmosfera proposta da chi scrive. Una poesia che solleciti in tutti coloro che leggono la stessa posizione transferale non esiste o, qualora esistesse, sarebbe una poesia perfettamente inutile. E la poesia di Nesci ha il pregio principale di sfuggire, per la densità dell'atmosfera proposta, al rischio della piattezza interpretativa.

Ad esempio, rispetto alla lettura di Zinna, io non riesco a vedere quali sogni Nesci abbia venduto, per ottenere quali cieli di cartapesta. Sembra invece che i sogni non possano essere indirizzati a nessun baratto, per la confusione circa un qualsiasi cielo da ottenere. Non ‚un caso, se la silloge come 

traccia indicativa i versi di Omar Khayyam – “Quel tanto che a bere ti basta, ed a mangiare e a vestire,/ cercalo pure, che in questo ancor sei scusato./ Ma il resto tutto‚ vano, e vuoto, e tu bada bene/ a non venderti via la vita preziosa per questo”. Che ‚ pronunciato estremamente impegnativo, perché estraneo alla cultura cui Nesci sembra appartenere: secondo la quale, la vita preziosa deve essere spesa precisamente per cercare “il resto, dal momento che il bere ed il mangiare ed il vestire, garantiscono a Salomone i gigli del campo, che verranno concessi in sovrappiù. Fra queste contrapposte massime di saggezza, l'intelletto rimane in una posizione di stallo, agitando i propri sogni nell'incapacità di indirizzarli ad un concreto oggetto del desiderio. Così, l'atmosfera tensiva viene ad essere esistenzialmente particolare: l'errore, sempre e comunque, vendere i sogni; non perché questi non siano spendibili, ma perch‚ qualsiasi cosa acquistabile sarà nel baratto inadeguata agli struggenti imperativi del cuore. E allora, l'unica ricchezza possibile‚ il mantenimento della condizione di non svolgimento dei sentimenti: ‚ questo non già come conseguenza della massificazione, ma come prerogativa inalienabile dell'uomo. Poesia da viaggiatore nevrotico, insomma: per il quale non importante la meta da raggiungere, ma la vitalistica soggettiva sensazione di essere in viaggio. La meta raggiunta ‚gi perdita di questa sensazione, ed ‚ già dolore. Al punto, che ogni traguardo propone una condizione di smarrimento, di nuove imperative coordinate da ricomporre (Restammo noi, noi soli/ a confabulare/ l'intreccio o l'abbandono/ nel presto domani,/ Il ragno tesseva frenetiche / mappe di fame./ Sfogliati/ dal gioco,/ restava la voglia./ Morsi di mela,/ nidi di vipera./ Restammo/ -tra pezzi di storia-/ a confabulare/ cosa volevamo fare). L'atmosfera vitalistica dell'essere in percorso¯ non concede stasi, né la riposante percezione del proprio animo appagato di poesia. Se l'unica de-compressione possibile,dice Zinna e questo ‚ l'essenziale,sembra essere la parola poetica che si svolge, mi sembra altrettanto vero che la de-compressione non può mai essere totale: altrimenti, sarebbe agita e risolta, e l'uomo si ritroverebbe da capo, senza sapere 

cosa fare, smarrito nella percezione della finitezza emotiva dell'agito, di fronte al sempre infinito riproporsi del desiderio. Così, la silloge procede con tono di sempre più vigile autoanalisi e cosciente assonante durezza espressiva, pure fra ripensamenti di tenerezza e tentazioni di abbandono totale. Ed ‚ una poesia initinere, sembra, dalla quale ‚ lecito attendersi altri frutti: quando comparirà nel cuore e nella mente, riguardo ai sogni (non ‚ questo, il percorso dell'uomo ?), 

l'accettazione della propria sconfitta e con essa l'ironia, tuttora fieramente assente in questo campo di poesia appassionata.

Non può essere che così.

Rossano Onano


-------------


NOTE PER LA BALLATA DELLE OCHE 

C’è un’età che gli antichi romani chiamavano del lasciare le noci (delinquere nuces), quella in cui si era ormai cresciuti e s’abbandonava il gioco, rendendosi conto con stupore un po’ doloroso che non si poteva più tornare indietro, era la tristezza dello scolaro che denunciava Marziale. La vita però concede sempre, in ogni stadio, uno stratagemma per rientrare a osservare seppure in uno specchio un po’ deformato quel mondo socchiuso: la fantasia. Ecco che improvvisamente non si è più soli o stanchi, tutto brilla di possibilità desiderabili come addobbi di natale. In questo clima dolce amaro mi sono accostata alla decina di poesie di Antonio Nesci dal curioso titolo complessivo di sapore celtico(la ballata richiama alla mente la ballata del vecchio marinaio di Coleridge, l’oca per i celti era simbolo dell’aldilà e guida di pellegrini, ma anche simbolo della Grande Madre dell’Universo, l’ultimo volo finale, e ucciderla come fa Parsifal con il cigno(oca selvaggia) nella foresta, che accoglie l’angoscia della perdita, si dimostra segno d’inqualificabile immaturità). In realtà la ballata in questione è un insieme di memorie totalmente “mediterranee”, a volte persino di colore localistico o folkloristico, basti pensare alle mareggiate che tornavano all’ovile, l’olio profumato di rose e l’aglio, la bambola vinta conservata ancora nel cellophane, poesie libere in versi e spirito, dedicate all’estrusione del sogno, del sorprendente favolistico, storico, urbano, mitologico e biblico, tutte facce di dadi lanciati su quel gran tabellone a spirale sinistrorso ch’è il gioco dell’oca, di probabile origine italiana, allusivo di quello della vita, con i suoi simboli tanto evidenti, ponte, torre, pozzo, prigione, serpenti, scale, locanda, scheletro, labirinto “della scelta del cammino”. Opzioni, sviamenti, occasioni di crescita spirituale. La corsa è a perdifiato, le spezzature o la parola onomatopeica sono inciampi del rivissuto o movenze di danza estemporanea, quello che conta è portarsi verso il centro, senza oltrepassare la casella n.90. Quante oche abbiano fatto raddoppiare il punteggio al misterioso giocatore non è chiaro, e a cosa corrisponda l’ultimo numero del gioco nessuno lo sa, un po’ come che cosa contenga la stanza 101 nel gran romanzo “1984” di Orwell. Più che il giudizio universale mi piacerebbe che fosse la scoperta del mistero della vita. L’uscita dalla cecità. Eppure è assai toccante quel che dice Borges in un’intervista: “Quando sogno, non sono cieco”, e parla del paese della sua infanzia, Androgué, a pianta labirintica, fonte di meraviglia: il labirinto, costruito perché qualcuno ci si perda, è per lui simbolo inevitabile della perplessità. Il percorso dedalico di Nesci ha più dell’istinto del colorista che mescola piani su piani sovrapposti, in modo convulso, dadaista, ricordi a voci d’oggi, anche cupe, anche critiche verso la società o il dio dimentico di noi, favole come “Alice nel Paese delle meraviglie” e “Pinocchio”, con Geppetto assediato dalla solitudine, a cowboy e indiani, conquistadores a tornei medievali, dame e cavalieri sempre in armi. E’ tutto un protendersi verso il limite sensoriale e chi legge prolunga volentieri il gioco ricostruendo ostacoli e aiuti assolutamente personali. Ricorda, rivede, riascolta, riassapora, accarezza di nuovo. Bastano due dadi, l’alea. La fortuna. A questo vagare dell’anima è d’altronde sapientemente portato dalla prima poesia (la mia preferita, la più visionaria in senso fantastico, solo in apparenza risolta e quindi sconcertante). Come svegliarsi di colpo dopo uno spaventoso temporale: il sogno ad occhi aperti è introdotto dal quasi onnipresente tempo imperfetto, che ricorda il tempo verbale delle fiabe(“Sembrava un gioco per ragazzi”), e s’incendia di colore bianco(“spazio bianco”) a segnalare il flash emotivo. L’imperfetto e il bianco formano l’ordito e le indicazioni allegoriche d’origine eterogenea sono le matasse con le quali l’autore ha filato il suo tappeto fatato. Egli non è qui un cavaliere romantico, il suo pellegrinaggio è più ariosteo e niente affatto templare: la sorpresa, l’inganno, il disordine dei sentimenti e i fallimenti che intralciano il passo sembrano rappresentare uomini e donne in carne e ossa, atmosfere, desideri veri travolti in liquide immagini della mente, e travolgenti a loro volta, a cascata: le torri crollano, le locande chiudono, i ponti si spezzano, i pozzi si prosciugano. Quasi un destino di continuo fluire caotico, una fatalità dietro l’altra per un “vincitore senza bottini”(XIII) nell’epoca d’antieroi in cui viviamo, inseguito dai fantasmi di una cultura industriale ereditata e in deposito. Il centro, l’unità, è però lì che aspetta.

Antonella Jacoli


------------

MAHAN 

(Il posto degli asparagi selvatici) 

Sullo stile, le tecniche etc...

La forma è un fluire ininterrotto, immediato che segue tempi rallentati, ripetuti, ossessivi di un'ossessione appunto: è un flusso di coscienza poetica.

Ecco perché, forse, questa impressione che subito prende alla lettura: l'eccesso. Che direi il segno più caratterizzante del lavoro.

......, infatti, una totale assenza di scansione sintattica, di punteggiatura riproduce l'affastellassi di emozioni, riflessioni, ricordi, ri-evocazioni: quel poco di strutturale-logico rimane si frantuma nei silenzi dentro: versi fra i versi, in quegli spazi bianchi che danzano: suoni avanti e indietro, proprio come in un polimorfismo continuo, una metamorfosi che bene rende il messaggio della fatica di afferrare un senso esatto ed univoco della realtà; come in un gioco di prestigio, che è poi, forse, la direzione di questo fare pena. Non a caso, spesso, ci sono versi interi, o parti di verso che possono essere interpretati sia legandoli a quanto precede, in un senso, sia a quanto segue, in un altro: (ad es. a pag. 65 "sarebbe ma non è così" si riferisce all'affermazione "c'è scarsa voglia di credere" si riferisce "all'intenso fuoco di pioggia", o lega il contrasto il successivo "guardando il reale fare" con il precedente "intenso fuoco"?)

(Ma gli esempi sarebbero molti altri). E' evidente che il lettore ha il suo preciso ruolo di dipanare un’interpretazione.

Ecco perché affermo che la mia lettura è certamente solo mia. Quasi ad ogni canto, io so di avere scelto un filo tra molti possibili.

E' poi un testo dove l'eccedere prende la forma di un'ubriacatura barocca: metafore arditissime, anzi non più metafore, ma identificazioni analogiche ("abbaio felice" p.24, "le facce che indossi" p. 30, "sei l'aquilone del mio avido azzurro"), con tutte le varianti di giochi metonimici ("mare che naviga da sé" p.9) di sineddochi continue, di sinestese estreme ("pelle taciuta nascosta all'ascolto delle mani" p. 9; "tramonti che ti rendono affamata" p.38, "sapore tra il vederti tra il mancarmi" p. 11), di un’aggettivazione ridondante, frastornante, con tutta la complicazione delle antitesi, degli ossimori, delle anafore echeggianti. Il senso, pur quello aperto polisemicamente della significanza poetica, è così continuamente traslato altrove: slitta da un referente all'altro, si sfaccetta, si muta, a volte anche si perde, in un'esplosione unica surreale, alla Dalì. Incredibilmente sono proprio i tanti simboli (dalle valigie bianche ai cicli di cartapesta) a creare, nel loro continuo riapparire, punti di riferimento, boe intorno alle quali decidere la rotta. Ne emerge perfettamente quell'immaginario che il poeta afferma di dover sovrapporre (o contrapporre?, o porre adiacentemente al reale?) alla vita "per non morire", che io credo sia poi da identificare col suo fare poesia, con quella che una volta si diceva la radice dell'ispirazione.

C'è un dire che spesso sovrabbonda, eccede appunto: sia nel senso di frequenti "in più" da un punto di vista strettamente linguistico (ci sono inserti prosastici colloquiali: "per intenderci" p. 64; "vero?" p.55, ci sono ripetizioni semantiche, non strettamente necessarie al senso poetico: "il fatto dei denti sulla mia pelle a mordere" p.47; ci sono espressioni di "gergo", "mi buttava bene" p.47, in mezzo ad espressioni alte etc..), sic nel senso di una ripetizione/ripresa di temi/espressioni:

ma tutto questo, credo, vuole rendere l'idea di uno scorrere, quasi incontrollabile, della vicenda interiore, dove il poeta è quasi succube di un "dire" ossessivo che lo trascende.

C'è un continuo richiamarsi, nel riproporsi di temi, emozioni, immagini, simboli, tra i vari canti, proprio come in una sinfonia; molti canti, poi, terminano solo graficamente, perché lo stesso motivo finale è riproposto come inizio del canto successivo: "all'immagine di un te..."XXX/di te" soave marinaio" XXXI.

Le sintesi più intense e poeticamente per me migliori, quasi graffianti, epigrafiche, si trovano spesso proprio nei versi finali dei canti: "Sapore tra il vederti tra il mancarmi" p.11, e parlo con questi piccoli laghi/"divenuti sogni pesci acquari che io sento in più, di cui sopra)/ sono le quattordici e fremo" p.16; “so adesso so di un asse inclinato e di lancette/scomposte nel giro della vita" p.25, tu sei quella dei capelli neri/quella che grazia o uccidi un io alla volta" p.37, "ma resta sempre il fatto dei denti sulla mia pelle" p.47, "senza te con me altrove" p.62, "scorre la vita nelle vene dei sassi" p.67



Parte Iª 

Il posto degli asparagi 


Che dovrebbe essere il luogo dell'evento, dell'incontro. Dovrebbe, perché in realtà non avviene mai.


I) infatti si apre subito con uno spostamento ossimorico, che segue fin dall'inizio la qualità di tale incontro:

il "giorno" (concreto, proprio nell'assenza di altre determinazioni se non quel "mio" che riferisce al soggetto) è inseguito/sostituito da una "notte" (ricordo attante, perché inebria ancora) che, pur già passata è assurdamente più concreta: è "sapore. Il giorno diventa "pensieri", platonicamente elevato/spostato ad un altrove, dove avviene, avverrà l'ossessione di una ripetizione, qui annunciata da quel "come assassini", che fa di quel punto (l'incontro) il centro dello spazio e del tempo, ma uno spazio e tempo astratti.

E qui subito appare lei.

"Ma", dice il poeta, "ma tu sei viva"! Perché quel "ma"? Sembra quasi un'affermazione per toglierla dall'astrazione del luogo.

Una definizione più precisa di tale vita, si ha più avanti, al XIII canto (p.21): "ho inventato molte cose per giustificare il mio dire d'essere vivo ed ora sono vivo mi sento vivo in te pensiero inatteso"! Ma già qui (I) si può capire: lei è "viva", ma nel silenzio della "pelle taciuta nascosta all'ascolto delle mani"; Viva, cioè, in una negazione/assenza, in una negazione/silenzio. Ogni altro rumore è pure inesistente: il "canto" è spostato altrove dal vento, il "suono", nominato e impossibile, è "di foglie". Nel IV (12) dirà: "no non servono orecchie per sentire" e nel IX (17) " sono in un altro giorno di assenze le tue assenze".

Ancora elementi di concretezza sono in quell'ossimorico "questo (che, quindi, è qui adesso) impossibile (che, quindi, non può essere) mare", che già presenta qui altri elementi sconcertanti: "che naviga da sé"(sia per lo spostamento metonimico, sia per un'idea di movimento che lo fa, appunto, impossibile); e poi quell’inventato", come dichiara apertamente l'io-poetante. Ci accorgeremo, procedendo nei canti, che anche tutti gli altri elementi, apparentemente concreti, spaziali sono tutti impossibili: il posto degli asparagi, il "cielo di cartapesta, da me inventato" (V), l’impossibile camera" (XIV).

La voce stessa di lui è negata, niente più gridi ("per gridarti amore"): è di nuovo il pensiero che sostituisce la voce: "mi si riempie la bocca al solo pensiero". Peraltro la voce ha, di per sé, una funzione d'astrazione: l'incontro, l'evento è ridotto nel IX a "codice nuovo della mia vita" ed è "codice della tua voce", quindi un insieme di sogni già astratti, convenzionali, divisi/mediati da una voce/altra, interpretante univocamente. Lei diventa spesso solo voce (VIII - IX), o parti separate da ascoltare, ma parti che in realtà non parlano, non ascoltano: "piccoli laghi", "pesci" (VIII).

Voce che diventa, sostituisce la carne: "la tua voce va surrogando ogni immagine ogni apparire in questo aspettare abbracci con carne viva" (IX). Già qui, nel primo canto, non sono i corpi "intrecciati", ma i pensieri.

E l'ebbrezza non è per la "lei" concreta, ma per l’immaginare te".

Nel IV dirò che il "sorriso" di lei, lui lo parla, lo scrive, lo legge.

Questo luogo dell'incontro, se anche è esistito in un'antecedenza esistenziale rispetto alla poesia, è qui un luogo dell'immaginario. E nell'immaginario "non c'è limite".


II) L'io-poetante dichiara la consapevolezza di questa sovrapposizione/sostituzione di un immaginario all'esistere ("non ridere del mio dire di una fantastica esistenza"), anche se non del tutto accettata ("devo smettere di restare tra gli antichi fantasmi"). Questa operazione di sostituzione, che passa per un "dire", è quella della poesia. Fin dall'inizio quindi il protagonista dell'evento si identifica col poeta, e la vicenda con un'azione, un fare poesia. "Ora c'è il canto", dice.

Lei è quasi sempre descritta o associata a qualcosa di volubile/volatile/metamorfico, come il "vento".

La realtà di lei è spostata in un sostituto, che poi viene ancora sostituito: lei è sostituita da un profumo e poi questo profumo è ancora sostituito da un diverso/altro profumo.

C'è poi uno spostamento temporale reciproco che annulla non solo la concretezza dell'ieri, ma anche quella dell'adesso: il "tuo profumo", di lei, è sostituito/annullato da quello di adesso di "ogni petalo"; il profumo di oggi "rivive", quindi si annulla nel richiamo a quello di ieri. Ecco perché il poeta può dire: "teorie di un vento".

La poesia non è il luogo di una indeterminazione, di una vaghezza, ma di un "possibile" (alternativo o trasfigurante la realtà) in movimento, "gioco", in cui soltanto però riesce a cogliersi il poeta ("mostrandomi ogni parte di me"), proprio nel divenire "percorsi", nell'inventare "pupazzi", "sogni", "fiabe"; solo qui c'è "dialogo in me stesso", solo qui è tolta "ogni maschera" che nasconde "l'io, identificato col "mio dire"(IV).

Questa dell'immaginario poetico è l'unica realtà che "c'è": la poesia è il luogo dove può accadere "questo cielo", che, come "questo" mare, è insieme nascosto (alla realtà) e aperto (nell'immaginario). Il luogo dove lei può convivere della sua dicotomia (lei libera ed imprigiona). Luogo, qui ancora, dove è possibile la ricongiunzione dei contrari. Ma più oltre l'opposizione comincerà a divaricarsi: "prigione" è la camera di lei, "aperte brecce" è il cielo di lui.


III) L'unione è sempre più fantasmatica.

E' quasi necessario che lei si assenti dalla realtà ("vorrei addormentare i tuoi occhi"), dal tempo ("cieca al tempo"), perché possa, "la tua ombra", seguirlo, amarlo, in una dimensione che è certo quella della poesia: la sola che può dire e dare consistenza ai nomi (nella realtà concreti e divisi: l'anticipazione della futura dicotomia), una consistenza di sogno (parole come fantasmi, così come sono "ombre" quelle che si rincorrono" nel buio, anche se concretate di sensi - "dita tese", "questi tasti" -, perché anch'esse diventano "parlare di te").

La scrittura è ripetizione di realtà vissuta altrove (ma già subito trasfigurata), "per scrivere cose altre volte dette", "e mi ripeto so di ripetermi", "in un'ombra che ossessiva ritorna"(VII), dove l'ossessione di questo ritorno è dichiarata come fine: per ri-amare, "ri-assaporare", che è qualcosa di molto diverso da un ricordo: è una reinvenzione/un "fantasticare", ma d'una intensità così viva da potersi sostituire alla realtà: "con mani con piedi"(VII). Si parla spesso di "sapore", in questo "rincorrere infiniti sogni", e ne viene meglio definito il rapporto, molto precario, con la realtà concreta: se c'è una realtà concreta all'origine del sogno che può prolungarsi nel sogno, però non può essere del tutto sostituita dal sogno: "sapore tra il vederti tra il mancarmi".


IV - V - VI - VII) Infatti, se può essere detto "l'amore" "per il suo semplice sapore", è invece indicibile ("che dire?") l'aspetto più misterioso dell'accadere, quello materico, dei sensi, che può essere solo indicato: "cose vive si mescolano ad altre più vive"(IV); quell'ossessivo/cieco verbo "sentivo" (non a caso al passato), ripetuto quattro volte in due versi(XII); quelle trasposizioni così fisiche ancora ("sapore", "fuoco dentro al tuo corpo", "zucchero filato", "dolce di viole"): dove però la sinestesia apre inderogabilmente un "buio" indicibile, "da lasciare agli occhi alle mani"(VI).

La poesia, se è altrove dalla fisicità del fatto, ha però un'orgogliosa affermazione creativa ("le mie labbra parlano", "t'ascolto...ricostruisco e ascolto... leggo e rileggo... rivivo con sogni"), anche se di un'altra cosa rispetto al fatto: perché le "bocche" sono "assetate di fiabe lontane".

Anche in (V) si vedeva questa prepotente affermazione dell'invenzione poetica: così la netta prevalenza della parola sui sensi evocati (la "felicità nel toccarti") è come inverata dalla parola gridata; così l'immaginario della poesia ("da me inventato") può costruire un mondo ("cielo di cartapesta") dove sono possibili miracoli. Ma è un mondo nettamente opposto alla realtà: "ma il cielo dov'è quello vero perdio quello d'aria di stelle"(V).

Ma forse opposto anche ad un immaginario che è di lei: nei sogni del "gioco", del teatro con sipari e luci", quindi con una connotazione di falsità/falsificazione, molto diversa dalla finzione/trasfigurazione del poeta. Che, per la prima volta, esplicitamente dice: "ho paura... di essere marionetta legata a un filo a un gioco".

Nel VII, infatti, nel pieno di una fisica rievocazione quasi realistica (una delle pochissime), interviene bruscamente un "tutto sembrava finire", che, se sta probabilmente a significare l'assolutezza di quell'esperienza fisica, però anche introduce la prima di quelle "note stonate" di cui si dirà più oltre(XI). La realtà può essere più menzognera delle finzioni dichiarate: "non so cosa ricordi", dice qui nel VII; e dopo dirà di lei: "che vivi... fra i sipari di teatri accesi ... non recitare con me", perché per lui l'immaginario è ri-costruzione, ri-vita, perché lui dice: "io non sono teatro", "io amo"(XI); "alla mia vita non serve un teatro per rivivere"(XV)


VIII - XIX) Due finzioni, due mondi mostrano ormai di opporsi:

- ciò che "deprime" lui, "l'infanzia"(XII) invece esalta lei ("ancora giochi a fare di te una piccola bambina");

- lei vive in una camera-teatro dai fissi oggetti e rituali (mute "bambole piangenti", musiche di morte, valigie bianche, scarpette da ballo), tra cui egli si sente come un "saltimbanco"; - l’infinito" di lei è "limitato", fissato alle pareti"(XIV); - per lui invece l'immaginario è un "de-scrivere" (un ricavare, un dedurre altro dalla vita), che non vuole fissare statiche memorie (ciò che invece lei ha fatto delle sua vita in quella camera): - lui vuole manipolare, aprire e riaprire (anche cambiare) ciò che ha esperito: con "sussulti di fiabe", dentro alle pareti dei miei sogni"(XIV)

La trasfigurazione del dire, del ripetere del poeta, non è priva di rischi: "frase fatta"(VIII) gli appare la ripetizione di ciò che è stato, mentre le "cose non dette" fanno paura perché potrebbero "consumare questo possibile urlare di un amore"(VIII). La poesia, se si dipana dall'evento, però è "lontano millenni"(VIII): la realtà ne è filtrata, deformata. Forse capita/trovata dotata di senso, ma anche, in un certo senso, perduta: "parlo con questi piccoli laghi divenuti sogni pesci acquari". La realtà dicibile , conosciuta, è solo in questo filtro che la trasforma: "mi manchi mi manca il posto dei sogni"(IX); "spremo lembi della scorza... per trovare il sapore della mia fata che trasforma"(X).

La finzione di lei ha invece, nei limiti della sua camera, sempre più i connotati di una "prigione senz'aria"(XIV). Se lui la trasfigura ancora in una "cenerentola", in "aquilone", in "mio insieme di fiabe... di sogni", eppure appare più volte un oscuro desiderio di morte, anche se ingiustificato: "come faccio a dire ora che ho voglia di morire?"(XVII).

E la consapevolezza progressiva intorno a quell'incontro: "io vivo attese... tra clandestine scuse dei trovarsi per caso nelle finzioni vivi siamo vivi in questo sogno"; "so adesso so di un asse inclinato e di lancette scomposte nel giro della vita"(XVII)

Comincia il presentimento della fine: "ho paura di non vederti più"(XVIII), e non è certo un rimedio: "t'appiccico dentro agli occhi"; la paura è di smarrirmi negli altri... nella strada divenuta coscienza del sole", la paura è del ritorno alla realtà.

Sempre più lei si fa evanescente, "mia antica fata", in qualche modo parallela al ricordo evanescente del padre; "mia sirena", che incanta, ma anche che perde.

Infine anche l'amore per lei, in qualche modo, la perde come preciso, concreto oggetto: "t'amo per il disperato bisogno d'amare me stesso"(XIX); "io recito per non dimenticare ogni mia parte confusa in te".

Ma "inutile dire che i sogni muoiono sempre alla luce di un sole".



Parte IIª 

Quando l'irreale trasforma 


XXI) Ci è detto subito di un tempo trascorso, d'un cambiamento: siamo nel "dopo solo dopo".

I sogni "maledetti" sono stati interrotti, mentre il poeta aveva ancora da "dire tante cose"; c'è l'urgere del dolore: quei luoghi di sogno sono diventati "luoghi graffiati" "dal mio avuto". La consapevolezza della loro evanescenza ("sbornia di un desiderio", in una costante "paura e solo paura di uno strappo netto alle mie ali posticce", "il logorabile mio castello di fate"), non diminuisce il dolore.

XXII) L'interruzione dell'evento, dell'incontro, non ha però cancellato il sogno trasfigurazione del poeta, ma "che fare ora di questi miei sogni e del mare inventato?". La confusione tra il sogno di prima e di dopo, tra il sogno e la realtà è grande: "i pensieri... azzannano le cose rimaste inutili vuote molte non le ritrovo altre sono uscite dalla mente lontana". La situazione non si lascia delineare, poetare: "tutto acceca non dà parole".


XXIII) Il "ma" del canto successivo apre però una possibilità.

Il sogno può continuare nel suo ribaltamento, per dire della cenerentola che è diventata cattiva matrigna, per dire del nuovo veleno, per ripetere sogni divenuti "maledetti", perché "le favole hanno altre facce". Ora il gioco del "ritrovarmi... rivivere storie... ripetere... sogni" diventerà drammatico, nel segno della follia della "fede",

Quasi una preghiera labirintica (a chi rivolgerla?), diventerà ossessione, dove, se lei ritorna come cenerentola o fata turchina è però come in una mascherata, in una recita teatrante appunto; ma comunque lei è sempre accompagnata da mostri e orrori(XXX), oppure è vista come in un negativo: una biancaneve che vende veleno e tratta i nani come burattini, una fata turchina invecchiata (XXV); oppure decisamente un personaggio terribile (mangiatrice di "IO" (XXX), mangia fuoco XXXII, maga circe XXXIII "elena XXXIII), maliardo e ingannatore.

XXIV) Ma il ribaltamento comporta anche una diversa dominanza: tutto è rivissuto dal poeta, ma non come soggetto creatore (di mari, cieli inventati), ma come oggetto manovrato, marionetta mossa da altri: "si entra si esce senza sapere d'essere parte in scena d'essere legati ai fili"; la finzione di lei è assunta soggettivamente dal poeta nel suo ruolo di vittima.)


XXV XXIX) Ma qual è allora la realtà, qual è stato l'evento? Un amore "inventato nei canti di sirene" o "quello dei corpi? E' lo scontro tra due, entrambe possibili, concezioni della vita: nettamente opposte: platonica/antiplatonica. E' anche la contrapposizione tra il "bacio" di prima e il bacio "dell'acido sapore di follia "di adesso, tra ciò che non è più, ciò che era (che era sogno): è lo scontro dentro le cose stesse, è nel divenire delle cose, nel loro mutare, pur restando se stesse.

Non è scomparso l'evento, non è scomparso; si è solo mutato, come brutalizzato, abbassato: claustrofobica la stanza di riti vuoti e infantili, teatranti ripetizioni; la bella musica è ora solo sogno mortifero, le valigie sono "vuote d'anima", contengono falsi copioni; lei è maschera, dalle molte facce sceniche che moltiplicano altrettanti "io" da far recitare nella propria commedia(XXVIII) (facce che lei "copre - scopre - nasconde" XXIX); lei diventa una precisa camille di cartapesta(XXVIII) che nello stesso tempo non è più ben identificabile perché si è sfaccettata troppo, esattamente quanto si è moltiplicata nei suoi temporanei favoriti; "mi stai morendo sto morendo(XXVI) è un grido disperato non più tanto per una fine, ma per una mutazione che non si sa riconoscere.

(Così il poeta se si ostina a districare la "vera" immagine di lei, tra i colori di biacca e quelli di fata turchina(XXIX), l'unica realtà appare come il "fantasma dei miei desideri", o, con una punta di sadismo, una fanciulla "con mani - giunte occhi - chiusi in attesa di una morte", fanciulla trasposta quindi in condizione di vittima. Comunque è un fantasma che non cancella l'altro, preponderante immagine: "tu sei quella dei capelli neri/quella che grazia e uccide un io alla volta".)

XXXI Dopo la consapevolezza ormai raggiunta di una dicotomia totale (lei non è il sogno che lui le aveva creato intorno,

XXXVI lei mastica, non capisce il suo dire), negli ultimi canti della sezione prevalgono immagini di morte (i "fiori neri", il profumo di vuoto"), dove l'incontro è ormai un reciproco azzannarsi (se prima era lei che masticava lui, ora è lui che ha "denti" per la "fame di te" XXXIV) e il nuovo problema è detto apertamente: "ed ora non ho che nervi...il mio tempo dove dovrò ritornare moltiplicando il tu tempo per due"(XXXIV), "dove porterò queste scarpette trovate"?(XXXVI), dove e come potrà ritrovare un altro tanto grande sogno, perché "ti amo ancora", perché non ho un’altra parte come quella che mi hai dato tu", perché, "sei la mia fata turchina", perché "sei tu... il luogo che annoda la mia follia al vivere", perché "tu sei il mio esistere di maschera tu sei l'esistere a tutti i costi", incredibilmente, nel ribaltamento di lei, l'illusione del prima, il sogno che lui ha ri-costruito di lei, si è come staccato dalle maschere di lei, dalla sua metamorfica performance, e si è andato saldamente a congiungere a quell'immaginario in cui il poeta ri-costruisce, ri-vive la sua realtà. Il sogno di lei si è già fatto poesia, non è più cancellabile. Ma il poeta si interroga" su come riuscirà ancora a dargli fiato, voce: "ma quanto costi se oggi scrivo", dice, alla fine. E ancora "quale è la parte che mi compete? (XXXVI)



Parte IIIª 

Poesia di un errante 


Qui centrale è infatti una riflessione dolorosa, attraverso l'amarezza dei ricordi e la loro attrazione, per ricostituire nel distacco, la propria autonomia critica e poetica (dell'immaginario), la propria "tenda".


XXXVII) Perché si era "quasi abituato all'idea di vivere nei teatri", dell'immaginario di lei, "cui aveva sovrapposto o fatto coincidere" la mia tenda tra il fare e il dire" (quel suo luogo "ideale" XXXVIII, tra "il sonno e la follia" XXXIX in cui lui costruisce, anzi ri-costruisce la realtà, che è poi il luogo della sua poesia), è difficile staccarsi dal sogno di lei, anche se duro, anche se lei "matrigna di te stessa" ( che uccide le proprie maschere sogno) è ormai già fissata anche nell'immagine di un carnefice, di un "lupo" XXXVIII che divora "carne viva".


XXXVIII) Ma c'è ancora "un infinito" a cui tendere, anche se motivato dalla "paura d'avere consumato il proprio tempo", che nasce proprio nel "punto critico" di "rottura tra la carne e l'anima", da un sogno che è stato "un sonno di agonie", dal rifiuto sia di un "vivere irreale" che di un "vegetare con erba".

E si accompagna alla "idea di una uscita" dal bozzolo (anzi già dal "baco da seta/principe azzurro"), di un’apertura dell'utero del mondo", di "un'evasione dalla cella", che è certamente una rinascita.

E' di nuovo la forza della poesia che "sorprende" nella sua capacità di dare "movimento" alle figure, di ricomporre "quei fili", anche contro "le sbarre" che tentano di impedire ogni inventiva ogni immaginazione", anche contro "i mostri dalle acide grida".


XXXIX) E proprio a partire da lei, direi quasi come oggetto d'indagine, in quanto oggetto di poesia, ha inizio una riflessione specifica sulla poesia:


1) nel sogno, nella ricostruzione ("mia cenerentola") c'è sempre un aggancio ed una concretezza ("sanno di donna le tue labbra") che farebbe parlare di realtà, se la realtà non fosse già in sé contraddittoria ("ma tu sei elena?");


2) ma non si tratta nemmeno di una costruzione puramente astratta "l'origine non si ferma al foglio scritto";


3) se "non è il luogo a dare origine", è però l'emozione di quel luogo/concretezza: "il battito il fremito" anche se delle paure. La poesia è un "piantare tende tra il sonno e la follia", è la raccolta non di "cose", ma del loro "ridere triste", della loro emozionalità, è un guardare il mondo "che si sfascia alle mille teorie";


4) è la ricerca di sé, della propria identità (ma io chi sono per..."), della propria autorevolezza a dire; ed ecco le prime risposte: non è un'identità fisica, "concreta", capace di calpestare la terra “perché la terra richiede piedi... non ali" (e le ali sono la connotazione/simbolo proprio della poesia); neppure però è un'identità del tutto astratta ("e io non ho neppure ali per volare", anche se qui è da intendere in contrapposizione all'immaginario teatrante di lei; inoltre da non dimenticare quelle "ali bruciate" del XXXIV); è comunque un'identità di parola poetica : "eppure dico", parola capace di trasfigurare, riannodare, ridare "fantastico infinito", ridare senso, riordinare. Anche se si tratta di "sogni amari", anche se "resta sempre il fatto (ma la poesia si alza sul fatto!) dei denti sulla mia pelle".

XL) Lei diviene "fatto" lei diviene altro dalla poesia, "deridi e non capisci le parole", "la tua sete non è uguale alla mia sete", lei è gelo, fissità evanescenza e nello stesso tempo analizzata nei più minimi particolari: "non trovo nulla che mi attrae". Quel "tu" che pure gli resta, incapace di emotività, non riesce più a coincidere col sogno della poesia: "non regge il dire": (lei non ha nemmeno consistenza di oggetto nel suo trasformismo: "non basta affacciarsi vivi", in apparente movimento, per lo "specchio" di un'analisi).


XLI) Occorre passione "dentro le vene" dentro sempre e solo dentro, per "ascoltare il silenzio", per arrivare a quel "mare" essenziale, dove si riassume l'eterno ciclo vitale ("un giorno - notte morte - vita" "ieri - oggi" "ero - sono") e la coscienza di esso ("il piacere di sapersi").


XLII) (Il ricordo reale perde spazio, la poesia recupera le "emozioni" "scordate": è la scrittura che conserva: "basterebbe rileggere un pezzo del mio quaderno")


XLIII) Certo ancora l'esigenza di avere concretamente si affaccia "non maturano mai questi frutti nei miei sogni" ma l'averla significherebbe "distruggere il mito - feticcio" (è importante che ora comunque il mito sia abbassato a "feticcio") che se ora vola ancora come un airone (ma per la verità "con spoglie d'airone") in fuoco di passione, potrebbe però "morirne per acqua", nella delusione del fatto. I "mostri" infatti degli eventi, dell'accaduto, soffocano il canto e il volo della poesia.

E come evocato da questi mostri, un preciso ...della memoria, quasi un archetipo personale del proprio soffrire, che viene appunto da un vissuto concreto, da un "uomo" che nel "suo amare stringeva troppo forte", soffocava. Nel tempo in cui fuggire era solo cancellazione ("non avevo più memorie") e non costruzione alternativa, non risposta di poesia.


XLIV) (Anche se il mito di lei si è frantumato, ha perduto il suo fascino (restano "rifiuti", "polvere"), il vuoto che hanno lasciato le "labbra - fragole" è violenta assenza. Questa mancanza, che ha un preciso sogno (avere spostato nel passato, nei "luoghi del ricordo" l'evento, sentire il sogno di lei come "frastuono") è una "prigionia" ancora, ma in cui lei non ha accesso; "non entrare camille". Non c'è spazio più per l’azzurro" "impossibile" di lei, dove l'aquilone della libertà interiore del poeta non si slanciava sul filo);


XLV) Lei ora solo questo gli evoca: impedimento, sonno mortale, prigionia: "fermo sul chi vive" (con l'intensità del suo doppio senso: la vita come blocco e la tensione ad un sogno che sembrava fuga dalla realtà, riproposizione di quella fuga/libertà vissuta da ragazzo nell'infrazione delle regole). Se lui cerca di nuovo la fuga (perché "la terra quando troppo bassa non può fare al caso mio"), è però quella della poesia: "ho inventato un mare... d'inchiostro per scrivere - descrivere (de - scrivere, direi con un senso di sottrazione della realtà) il dentro di queste mura il dentro dei vetri".

Questa trasfigurazione della realtà è "un peccato"? questa illusione?

C'è stata la possibilità, la volontà di un sogno, che si muoveva tra la sua trasfigurazione ("l'irreale trasformare di vita") e la trasformazione di lei, che era invece una frantumazione all'infinito di sé e della realtà, fino alla cancellazione. C'è stato uno scontro tra queste due trasformazioni: "il sogno non regge ad altri sogni". Il sogno di lei è quello svanito: egli sa ora "di non averti mai avuto".

Lei/o lui mentre era nel suo sogno, era "corpo senza ali".


XLVII) (La dicotomia tra i due sogni è spalancata: lei è incredula al suo "dire", lei ha altre trasfigurazioni della realtà (il dio mozart, la valigia bianca, le scarpette da ballo: tutte teatrali). Il sogno di lui è la poesia, "ma io scrivo per vivere": senza perfezione (perché la perfezione porta a morire, come il "suo" Mozart scrisse il perfetto Requiem morendo), con errori "di proposito", perché così è possibile inventare una realtà alternativa non troppo reale e non troppo falsa (come il teatro).


XLVIII) (I grandi valori/le idealizzazioni, alla maniera di cavalieri arturiani) non gli bastano, per accettare affrontare, essere nella realtà: "io non sono parsifal non sono cavaliere di nessuna tavola - ordine"; tutt'al più può identificarsi nell'eroe trasgressore "lancillotto" (trasgressore della norma - realtà), che ama "ginevra" nella (cattiva coscienza".)


IL) E' "un dire tutto mio"; che non gli fa osare più la realtà, che lo fa ritornare "in balia dei sogni": ma non si tratta di una totale e perenne sostituzione del reale, non è una "resa smarrita in bandiere bianche";(ne potrebbe il suo sogno: cade troppo spesso rispetto al modello - lancillotto.)


L) "Questa carta intrisa d'inchiostro" "che ripete tracciati rivissuti da poco" forse potrò aiutare anche lei a guardare finalmente "il dentro delle cose". (Anche se fascinosamente e terribilmente lei mostra d'essere una nuova Salomè che porta a morte "un battista qualunque", un dicitore di verità.)


LI) (Perché le parole/suoni del poeta sono per lei "parole - coltelli"; contro la sua nordica fredda immagine di teatro, lui recita sul teatro dei propri miti, caldi mediterranei.


LIII) Lui è estraneo al mondo sogno di lei: nel sogno di lei c'era "la paura del dover restare in eterno in queste bianche mura a parlare di te senza te con me altrove").


LV) Il suo luogo è "la mia testa scucita sulle illusioni ottiche delle parole delle forme costruite ancora in posti sbagliati", (Anche se il rimpianto di lei resta (a cosa servono queste mura bianche se non posso dipingere ciò che tu sei"). In un "oggi"/"presente" cosparso di lacerti - ricordi senza respiro. Il rimpianto è di un sogno dove "mi lascerei cadere dentro per ritrovarne la storia di un coraggio morente nel morir d'amore";


LVI) rimpianto che si popola di ossessioni, "fiore malato", bocche avide di miele amaro"; la realtà da affrontare, la realtà della cecità). "Siamo tutti colpevoli", perché nessuno osa "chiedere", perché "c'è scarsa voglia di credere" a chi dice e fa la verità: questa "bocca parlante di un grillo" nel suo "reale fare" è il poeta.


LVII) Un grillo che tra il suo "essere già stato" e il suo "dovere ancora essere vivo", deve fare i conti con i "brandelli" di un sogno che, per quanto "lacerati", non sono innocui, se il sogno è morto rimorto almeno cento volte" il rimpianto è come "un voler ricostruire il cordone ombelicale".


LVIII) Ha perduto molto il quel sogno: "mi amavo... perché sapevo d'amare " ed ora "canto cose che non erano le cose sperate". Potrebbe sembrare solo un "interiore ritmo di resa". Ma "io resto altrove", nella poesia, "con la mia sete con la scusa di un impossibile volare", perché se pure tutto è fuga per paura dal proprio essere, comunque "scorre la vita nelle vene dei sassi".

Milena Nicolini

-------------