, con prefazione di Gianfranco Laureano e nota critica di Nicola Amabile (NCE Forlì 1991),
con note di Nicola Amabile, Elio Caterina, Paola Lucarini Poggi, Mariella De Santis e Oreste Zoboli (Edizioni images Art & Life Modena 1992),
insieme ai poeti Giovanni Capucci, Paolo Mucchi, Rossano Onano e disegni di Andrea Capucci (Edizioni Images Art & Life Modena 1995),
, con prefazione di Francesco Graziano e post-fazione di Franco Tralli (Edizioni ilfilorosso Rogliano 2002),
, insieme ai poeti Giovanni Capucci, Gianpaolo Feriani, Bepi Sartori e Silvano Zorzi (Verona 2004),
, con prefazione di Gianfranco Lauretano e postfazione di Francesco Graziano (Edizioni “I libri di Damoli” (Verona 2005),
, con prefazione di Francesco Graziano e postfazione di Franco Tralli (Edizioni ilfilorosso Rogliano 2006),
insieme ai poeti del Circolo di poesia la Fonte di Ippocrene, ha pubblicato il volume
, con prefazione di Gianfranco Lauretano e note di Bepi Sartori e Antonio Boitini (Edizioni del Cerro Pisa 2007),
, con prefazione di Rossano Onano e nota di Giovanni Capucci (Edizioni dell’Aurora Verona 2009),
con prefazione di Stefano Mazzacurati e e post-fazione di Michele Lalla, (Edizioni dell’Aurora Verona 2010),
con prefazione di Gaetano Marchese e nota di Luigina Guarasci, (Edizioni dell’Aurora Verona 2012),
con prefazione di Gianfranco Lauretano e nota di Serena dal Borgo, (Edizioni dell’Aurora Verona 2013) e
con prefazione di Ivan Fedeli, postfazione di Paolo Francia e nota di Giovanni Capucci.
. Sue poesie sono comparse su riviste e antologie, ultima in ordine di tempo,
a cura di Giacomo Ribaudo e Giovanni Dino edizioni CNTN (2013). Inoltre
(2015), volumi editi da: Consulta libri e progetti, per Associazione Modena per Unesco in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, inoltre è presente nella rivista online “I segreti di Pulcinella”. Per “Il Circolo degli Artisti Modenesi” ha scritto dal 1984, poesie per il Natale. Ha ideato, nel 1985, la Biennale di Poesia delle Scuole Primarie di Modena, iniziativa sviluppata con la collaborazione del Circolo di poesia “La fonte d’Ippocrene” di Modena, che lo porta a “parlare” di poesia, nelle classi e, poi, a raccogliere i “lavori” dei bambini coinvolti. Da allora ha curato la pubblicazione di
(2014). Collabora come “esperto di poesia” in diverse scuole primarie, secondarie, istituti tecnici e licei, ha lavorato a Modena, Parma, Reggio dell’Emilia, Verona, Cosenza.
Dopo una “intensa frequentazione” del reparto oncologico di pediatria del Policlinico Modena, cura la pubblicazione del volume
, con testi poetici dei bambini del reparto di pediatria e con disegni dei bambini delle scuole del 1° Circolo di Modena (Edizioni Aurora Verona 2008).
Negli a.s. 2009-2010 e 2010-2011 è stato nominato esperto per il PON F2 Scrittura creativa presso l’Istituzione scolastica: Liceo Artistico I.T.A. Tommasi di Cosenza. Nel 2002-2003-2004, con l’istituto comprensivo di Peri (Dolcé, Rivalta,Volargne e Peri) ha collaborato nelle scuole locali per la pubblicazione dei volumi “Giovani poeti in Valdadige” (Edizioni “I libri di Damoli” Verona 2003 e 2004). Nel maggio 2007 ha curato, dopo aver lavorato nelle classi, il volume
, raccolta di poesie dei bambini di Maranello che hanno partecipato alla I Biennale delle scuole primarie, esperienza ripetuta nell’anno scolastico 2008-09 con la pubblicazione del volume
e nell’a.s. 2010-2011, il volume
raccolta di poesie della III Biennale di Maranello. Nel 2008 è uscito il video libro,
, esperienza interdisciplinare che ha coinvolto tutte le classi della scuola media di Vigasio (VR). In collaborazione con l’associazione Culturale il filorosso, il Comune di Rogliano, la Provincia di Cosenza e la Regione Calabria, ha condotto, laboratori di poesia, che hanno consentito la pubblicazione dei volumi:
(2013). Per la rivista “Images Art & Life”, ha curato le rubriche
, in cui sono comparse le interviste e i testi di poeti contemporanei tra cui: Nicola Amabile, Tolmino Baldassarri, Giorgio Barberi Squarotti, Alberto Bertoni, Mariella Bettarini, Alberta Bigagli, Ninnj di Stefano Busà, Giovanni Capucci, Domenico Cara, Pier Carpi, Corrado Costa, Mariella de Santis, Flavio Ermini, Ubaldo Giacomucci, Mara Giovine, Grazia Lenise, Franco Loi, Mario Luzi, Francesco Mandrino, Franco Manescalchi, Jean Jacques Meric, Rossano Onano, Silvio Ramat, Roberto Roversi, Paolo Ruffilli, Roberto Sanesi, Carlo Alberto Sitta, Massimo Scrignoli, Selim Tietto, Franco Tralli e Lucio Zinna; inoltre presso la stessa casa editrice ha diretto le collane di poesia
. Collabora inoltre con la rivista di poesia “ilfilorosso”. Ha collaborato a percorsi di poesia nella Casa di lavoro di Saliceta S. Giuliano e nelle Carceri di Sant’Anna, sempre a Modena, con la pubblicazione dei volumi
, con testi poetici dei detenuti e del gruppo che ha contribuito alla realizzazione del progetto.
Esperienza ripresentata alle classi del carcere di Sant’Anna, che dopo un intenso “lavoro poetico”, sono state pubblicate, grazie al contributo dell’assessorato alle politiche sociali del comune di Modena, le raccolte
per l’anno scolastico 2007-08 e per l’a.s. 2008-09
. Ha curato un progetto di poesia presso la comunità “Torre Muza” di Modena e la pubblicazione del libro
con i poeti de “La fonte d’Ippocrene” e il fotografo Beppe Zagaglia, presentazione di Franco Loi e nota introduttiva di Luciano Pavarotti, presso Teatro Storchi - Modena;
(viaggio delle lingue dialettali attraverso una immaginaria stazione), Teatro di Riolo Terme;
E
nel sonno gli occhi di lei come se fossero le lune della sua vita.
Come se uno sguardo potesse fermare il tempo che allontana i sogni,
stanotte nel sonno ti ho guardata. Questo non è un semplice
libro d’amore, sono poesie di un abbraccio, di una partenza.
Fuggire dunque, andare via oltre le parole che ancora risuonano come
echi lontani, anime di carta stagnola riflessa. Così
il poeta attende che il vento porti la sua vela distante da dove il
cuore a scavato un rifugio, gridando che non è lui a fuggire, non è
lui che a remare senza sosta, ma un pezzo di luna, un profumo
d’acacia. E scende sul suo viso la malinconia, acuto
torna il dolore di aver amato il nulla.
Occhi pieni che non sfociano in mare, aculei sul cuscino dei sogni e
tanta nostalgia di qualcosa che poteva essere, invece non rimane che
dolore. In sostanza, il poeta urla attraverso l’inchiostro e la
carta che la passione può finire, può finire il bene, l’amore no,
anche se ha un peso enorme nel cammino solitario verso il domani.
Non so se ho ben
compreso, ti sarebbe piaciuto un parere sulla tua poesia in generale,
sulla poesia letta domenica scorsa o sul poemetto d'amore che è fra
le mie mani?
Sulla tua poesia in
generale sarebbe un grave azzardo per me, dato che ho scorso la
tua bibliografia, della poesia letta in sala, la 51 della
seconda sezione del volume, penso che è un capolavoro, non ho
termini diversi per definirne la potenza descrittiva, la sintesi, la
profondità, lo stile di questo testo.
Circa il poemetto, che
dire, non sono per niente un critico letterario, forse potrei con
grande sincerità semplicemente elencarti i miei passi preferiti
delle tre sezioni e sono:
La strofa 2, la 3, la 15,
la 19, la 25, l’incipit, in particolare, della 29; ho trovato
bellissime la 30, la 32, mi sono innamorata della 34, dell'acqua
salata e di quella dolce, pure sotto forma di neve, della 35;
sono rimasta impressionata dagli occhi degli angeli della 39, dalla
forza dirompente della 43, della 49, dalla quiete 'apparente' della
51; verità trovo nella 69; apprezzo e condivido il discorso,
anche filosofico sull'esistenza che si legge nelle poesie 71 e 72.
Della seconda sezione ho
preferito i testi numero 2, il 9, l'11 (il mio numero del cuore!),
condivido pienamente quanto affermi nel 15; per quanto riguarda il
16, nell'ultimo verso c'è forse un refuso?
Del 22, in particolare,
ho trovato folgorante il corsivo finale, il 24 me lo sarò
riletto dieci volte, il testo 25 è un autentico
'sollucchero' e sarebbe tutto da musicare; ho amato il 27 e
il 28, nel 33 trovo meravigliosi in particolar modo gli ultimi
tre versi; ho apprezzato molto il 34, il 35, il 38 e il 40,
la poesia numero 47 è troppo bella, come pure lo sono i versi
di chiusura del testo 50, della straordinaria 51 ho già detto.
Dell'ultima sezione
"Dammi la tua voce" ho preferito il mare, il cielo e la
barca della VII, le 'atmosfere' pregnanti e un po' misteriose
della VIII, il nitore della XI e della XVI, ma è
splendida tutta l'ultima pagina del libro e l'ultimo suo verso è un
diamante di chiusura incastonato.
Riconosco nel tuo dettato
poetico una capacità introspettiva e una chiarezza eccezionali.
Perdona la corsa di
questa mia risposta, ovvio che si potrebbe dire moltissimo altro
ancora e chissà se ci riuscirei, ma desideravo riscriverti
subito
Dialoghi con l’Anima rappresenta il risultato di una sfida: scrivere di poesia in un luogo apparentemente così lontano da questa forma espressiva e artistica come l’ospedale. In realtà le corsie ospedaliere, con il loro concentrato di sofferenza, dolore, ansia, paura, speranza sono un terreno fertile per il germogliare di sentimenti forti, per lo sgorgare di emozioni autentiche che stanno alla base della ispirazione poetica. Se poi i protagonisti della sfida, i poeti, sono i bambini ricoverati in ospedale il risultato non può che essere toccante e suggestivo. È nata così l’idea di utilizzare la poesia per rafforzare un dialogo tra i bambini ospitati al Policlinico e quelli delle scuole, riannodando fil rouge che si è andato consolidando nel tempo.
Le insegnanti dello <Spazio Scuola> del Policlinico – Carla Ferri e Marisa Sverberi – hanno così coinvolto Antonio Nesci, poeta modenese di grande esperienza e umanità, maturate con i bambini delle scuole, in questo percorso con i bambini ricoverati nelle Strutture complesse di Pediatria, Chirurgia Pediatrica e Oncoematologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena. Il progetto (che significativamente si intitola: La poesia per conoscermi e conoscerci) è poi divenuto un libro, grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e all’ASEOP, dopo aver ottenuto il patrocinio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica.
La poesia è un potente veicolo per le emozioni ed i sentimenti. Poetare aiuta a comprendere meglio sé stessi e a dare una forma ai propri fantasmi che, così, possono essere affrontati più serenamente. Questo vale ancor di più se sull’ispirazione della Musa salgono bambini ricoverati in ospedale, che partecipano quindi di una dimensione di vita distaccata rispetto a quella dei propri coetanei, costretti come sono a coabitare quotidianamente con la sofferenza, la paura, l’ignoto.
“Perché le grandi emozioni generate da una malattia possano essere veicolate verso la poesia è necessario l’aiuto di un esperto. – spiegano Carla Ferri e Marisa Sverberi
-. Così nel progetto è stato coinvolto Antonio Nesci. Col suo sapiente aiuto emozioni, sentimenti, sogni, paure e speranze dei bambini si sono tramutate in versi capaci di incidere e scuotere e di avvicinarci all’essenza della vita, permettendoci di cogliere le cose importanti al di là delle sovrastrutture che la società moderna ci obbliga a considerare fondamentali. Per questo il volume verrà distribuito ai bambini e ai ragazzi delle scuole per aiutarli a comprendere meglio il valore ed il significato della vita”.
I bambini di alcune classi delle scuole elementari del Circolo I di Modena, cui appartiene anche lo <Spazio Scuola> del Policlinico hanno poi illustrato queste poesie con disegni, creando un connubio, un intreccio tra versi ed immagini che immerge il lettore in una realtà colma di voglia di vivere e che trasuda della forza morale di questi bambini.
In verità, una delle poesie contenute nel libro è già stata letta in una scuola. Si tratta di ... di un pensiero per il mare di Salvatore che è giunta quasi per caso in una scuola della Romagna i cui alunni hanno letto e commentato il testo aprendo un dialogo col suo autore:
“Si! Cerco la mia strada / più azzurra possibile / perché io sono al centro di questo mare nero / a volte profondo, inutile quasi / come il male che mi comprime...”.
“I poeti di questo libro – racconta Antonio Nesci
– sono solitamente sdraiati e ascoltano i loro pensieri, la propria anima e lo fanno in modo differente dal “normale quotidiano” di una scuola. Eppure l’inconsapevole che vive in ciascuno di noi riesce a dare forma all’illusione e tutto diventa speranza, voglia di liberare e liberarsi per un volo tranquillo, ma anche e soprattutto avventuroso, almeno nella profondità della propria anima. Io ho registrato le loro emozioni e li ho aiutati a trasformarle in poesie senza mai snaturare il sentimento che le aveva fatte germogliare”.
Dialoghi dell’anima si presenta così come un viaggio di parola e immagini nella paura, nella sofferenza, ma anche nei sogni e nel desiderio di vivere.
Cinquantaquattro poesie che raccontano altrettante storie di vita vissuta o semplicemente agognata, versi di straordinaria bellezza e di intima naturalezza, scritti da bambini dai 5 ai 15 anni grazie all’aiuto di Antonio Nesci. Tra queste poesie ve n’è una (Di una madre sradicata di vicenza attraverso l’amore) scritta da Stefania che ha voluto esprimere ciò che aveva dentro:
“la mia casa che non è fatta di mura / non è fatta di tetti, ma di cuore amore).
Ci sono metafore che si ripetono ossessivamente in questi versi, il buio e la luce, la selva oscura, la paura, il sentirsi prigionieri, la voglia di volare. Versi che mostrano una voglia di vivere contagiosa che, al termine della lettura lasciano il segno in maniera indelebile.
“Noi medici ci occupiamo del dolore fisico che può essere misurato, che deve essere sedato. Antonio Nesci da’ voce all’oscura profondità di un dolore senza nome”. Ha detto la professoressa Fiorella Balli, direttore della Struttura Complessa di Pediatria.
“Mamma fammi luce illumina questa mia foresta fitta e scura” scrive Andrea nel brano Di una vita. Di paura parlano anche Eleonora
“Sono una pallina che gioca nell’aria e fugge per paura di restare ferma. Ho paura della mia stessa paura” (Di un amore), Ines
“Sto pensando al poi, quando sola / sentirò la paura / e cercherò l’abbraccio di mia madre / e il suo cuore che insieme al mio / diventeranno musica e amore... / e guardando i suoi occhi e il suo volto / vedrò il mio angelo custode” (Di un’attesa) e Fabiana
“io non ho paura, ma a volte / mi prende e cerco di non pensare / La speranza è dentro al io cuore” (Di una città). “Non ho paura / mi lascio andare / divento aquilone / torno me stesso e canto i miei sogni / galoppando nella libertà” è il forte messaggio di speranza di Filippo in Del Mare.
“Sono qui in questo letto di sofferenza / e vorrei essere a scuola / sentire le voci / dei miei compagni, qui...” spera Jacopo in Di un giorno non felice.
Mare. “...la notte, invece ho paura di sognare / la mia malattia, e allora canto” ci racconta Sharon in La Danza, il disegno e il canto.
La solitudine è un’altra sgradita compagna della malattia.
“Avrei voglia di parlare con i miei amici / dire quanto di è soli / in un letto come questo, correi giocare a carte, / parlare e correre.... essere in compagnia....” si lamenta Andrea (Figlio del cielo e del mare). Essa si accompagna alla malinconia quando si è stranieri in un luogo alieno anche se in Italia si è trovata una famiglia:
“dico buonanotte a mia madre / e con il ricordo costruisco quella rimasta in Eritrea / e anche a lei dico buonanotte con un bacio” racconta Lewam (Di un pensiero).
Federico esprime la frustrazione di sentirsi prigioniero e il desiderio di libertà
“Sono triste per questa malattia / ha preso troppo attimi della mia vita / e mi sento un aquilone / legato ad un filo troppo corto / non posso volare / dove io voglio...” (Di un Libero). Il tema del sentirsi prigionieri accomuna anche Luca
“Sono come prigioniero / dentro questo corridoio / non vedo il mondo, gli amici” racconta (Di una noia... quando non riesco a volare), Francesca
“Mi manca / il sentire il gusto delle cose, della vita / e vorrei tornare / ad essere viva nel cuore” (Dialogo) e Lorenzo
“Mi chiamo Lorenzo, un bambino / che si sente prigioniero quando sta in questo letto / con questi macchinari che mi danno medicine / come fosse pane e marmellata” ( Dialogo). Giulia è
“quasi felice di andare a scuola / tornare a casa, essere nella mia quotidianità” ma vorrebbe
“Essere libera... essere un cavallo / che corre e non si ferma mai”, la chiosa di questa poesia è un insegnamento meraviglioso:
“Eppure se dovessi cambiare / non so se metterei una mia amica al mio posto / lei soffrirebbe, morirebbe più di me” Amore... per esprimere ciò che sento in un modo diverso.
Altri bambini hanno parlato della loro malattia e del percorso interiore che ha generato in loro. Silvia in Di una libera speranza ci racconta:
“Solo nella malattia ho trovato la mia verità / e se penso a Dio... il dottore c’era... / è stato lui a farmi guarire...” e ancora
“ricordo la sofferenza, il dolore / le preghiere ....e poi ancora la sofferenza...” ma anche
“la consapevolezza / dell’amore di chi ci respira accanto” e il desiderio che
“il mio sangue / sia sano... pulito... rosso come il fuoco / come la stessa vita che m’accompagna / si forse c’è anche un po’ di speranza”. E Vanessa
“Quando vedo un bambino che piange / io sorrido, cercando di asciugare la sua lacrima / perché ricordo quando io ho sofferto / ho un sogno tornare come prima / ammalata di solo raffreddore” (Di un posto da vivere).
La forza di questi brani, però, sta nel fatto che in essi quasi mai traspare lo scoramento e l’autocommiserazione mentre, al contrario, la voglia di vivere e la capacità, e forse anche il bisogno, di esprimere gioia è potente e contagiosa.
“Sono felice di questa mia emozione / di essere ancora bambina / capace di sognare un principe azzurro / che con il suo cavallo / mi porti in un cielo fatato per ascoltare ogni parola” dice Giulia (Di un cielo e l’attesa di un sogno).
“Quello che più colpisce lavorando con i bambini è la loro incredibile capacità di ripresa – spiega il professor Paolo Paolucci, direttore della Struttura Complessa di Pediatria ad indirizzo oncoematologico –
un momento sono distrutti dalla durezza della terapia, un attimo dopo sono già lì che hanno voglia di giocare e scherzare”.
Come si vede da questi pochi stralci – non una selezione per merito ma un esempio del contenuto del libro – la sofferenza, la voglia di libertà, la rabbia e la paura sono sentimenti che si alternano alla riflessione, alla speranza, a una gioia di vivere che non viene domata dal dolore fisico e dalla costrizione.
“L’ospedale nasce come luogo di cura e assistenza, un luogo di sofferenza. Ebbene, oggi questo ospedale, attraverso l’amore e la passione per il loro lavoro di medici, infermieri e insegnanti vuole dare al bambino ricoverato la possibilità abbattere le barriere che li separano dal resto del mondo, dai loro affetti, e di esternare liberamente, per quanto la loro condizione lo consenta, i propri sentimenti, trasformando le quattro mura colorate della stanza in un ambiente di condivisione, creatività ed ingegno per andare oltre la malattia e la quotidiana fatica del combatterla”. Ha detto il dottor Stefano Cencetti, direttore generale del Policlinico.
Questo libro nasce come percorso didattico per i bambini ricoverati ma è una testimonianza di vita che, come ha affermato Erio Bagni di ASEOP “stimoli nei ragazzi il desiderio di solidarietà nei confronti dei loro compagni meno fortunati”.
2 ottobre 2008
Servizio Rapporti con l’Informazione
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DIALOGHI CON L'ANIMA
PAROLE, COLORI E SOGNI
TRA CORRIDOI E CAMICI BIANCHI
1
Così
mi ritrovo in mano un libro di poesie, un catalogo d’arte, una
“cosa”
che sarebbe inadeguato, anzi, offensivo chiamare “oggetto”.
Sì, perché chi sa di filosofia conosce la fondamentale distinzione
che Heidegger stabilisce, una volta per tutte, tra cosa
e
oggetto.
L’“oggetto”
è tutto il reale inscritto nella relazione performativa della
soggettività trascendentale, cioè della volontà che progetta,
prevede, programma, produce, confeziona, specula, vende, consuma ed
in-fine,
cioè nello statuto del suo fine, elimina. L’oggetto è, infatti e
senza dubbio, il protagonista del Contemporaneo in quanto macchina
che pre-vede, pre-determina, concretizza e destina tutto alla
Discarica. La Discarica
– macro-categoria filosofica della nostra epoca – non è solo la
fine
degli oggetti, ma ne costituisce, ante
litteram,
la destinazione finale, la causa finale, direbbe Aristotele. La
Discarica è certamente uno dei massimi problemi del nostro modo di
fare mondo nella misura in cui è già a monte un orizzonte di
pensabilità del nostro modo di abitare la terra, tutto intonato sul
registro del consumo del mondo.
Ma
tutt’altra cosa è la “cosa” che ho in mano, ed è per
tutt’altro mondo. La “cosa”, ripensando all’Heidegger sia di
Saggi
e discorsi
sia di Che
cosa significa pensare?,
ha invece la caratteristica iniziatica della intrapresa di avventura,
possiede la valenza di apertura di possibilità; in una parola, la
“cosa” ha la potenza di coseggiare.
Il coseggiare è del rosso del pettirosso, è della tela di ragno in
controluce che pare tessuta dal mistero per accogliere il primo
raggio del giorno che nasce, il coseggiare è di una poesia, o anche
solo di un verso, che continua a lavorare l’interno ridonandolo
come anima, ecc. La “cosa”, allora, dona alla vista un nuovo modo
di vedere, stimola il pensiero verso un’apertura nei confronti
dell’impensato e offre al cuore un nuovo timbro di sensibilità.
Ecco,
non appena Antonio Nesci mi ha messo in mano questa “cosa”,
Dialoghi
con l’anima,
subito ho ricevuto l’impressione che iniziasse a coseggiare, e
neppure per un attimo mi è parso un semplice oggetto. Sfogliandolo,
poi, così, ancora con semplice curiosità, si faceva spazio la
sensazione di un tempo altro dalla mera curiosità; si trattava,
piuttosto, di un tempo capace di accogliere il kairos,
tempo che direi dell’opportunità che si accompagna alla grazia.
Intendo quella sensazione, insieme intellettuale ed emozionale, di un
tempo che si desidera rivivere, che gioiosamente si ri-accoglierebbe
perché tempo promettente frutti, sorprese, doni.
È bello essere nati, quando si
vivono attimi portatori di dono.
2
Credo
che la grazia, laicamente intesa, sia questa disponibilità ad
ospitare e vivere il tempo
aurorale,
che è pur sempre tempo mortale, ma non perciò è meno denso di
aperture al dono, alla sorpresa, e non perciò ignora la auroralità
della relazione.
E a proposito di auroralità di
relazione, voglio precisare che uso questo termine in senso forte,
ontologico e non solo psicologico. Lo uso anche in senso specifico,
sentendo la cosa che ho tra le mani, infatti ciò che questo testo
concretizza è il gioco di relazioni tra bimbi diversi, tra ambienti
differenti, tra forme espressive per lo più disgiunte. Entrano in
relazione creativa e colloquiano tra loro stanze di ospedale con aule
scolastiche e, in retroscena, infermiere, medici con personale
parascolastico e maestri.
La
segreta filigrana di questa opera è già nella escogitazione della
struttura stessa del pensiero che sta a monte e del progetto che, a
costo di non poche difficoltà, ha preso corpo negli autori di questo
libro “coseggiante” di poesia e arte. Ne sono artefici bimbi
provenienti da tutt’Italia e ricoverati in pediatria, talora anche
per lunghe degenze come nel reparto di oncoematologia pediatrica, e
invitati, affascinati a scrivere poesie da Antonio Nesci. Poi,
sorprendentemente nasce, insieme, alle maestre Carla Ferri e Marisa
Sverberi dello Spazio Scuola, un’idea: dare le poesie scritte ad
altri bimbi, quelli delle classi del I Circolo Didattico di Modena a
cui appartiene la scuola ospedaliera, perché su di esse compongano
disegni, pitture, opere, per ricordarli, per rallegrarli, per fare
circolare del bene materializzatosi in doni visivi.
E
così, selezionando tra gli innumerevoli disegni ne è uscito un
libro trasbordante di immagini e colori freschi ed ingenui, patetici
fino alla commozione, dove patetici (da pàthein)
indica la capacità di presentificare a costo della sofferenza o
della gioia un retromondo insieme velato e rivelato.
3
I
disegni e le pitture non sono illustrative, e questo è un colpo
gobbo straordinario, perché bisogna sapere che capita che i bimbi
pur ritenendo di fare una cosa mettono luogo a un’altra o meglio, e
sempre, alla loro complessità. Perciò anche credendo di illustrare,
reinventano il mondo giocando (e giocandosi) la totalità
del loro essere, senza risparmio e senza reduplicazione – tale è
la loro potenza espressiva fino a che è ancora soggiogata dal magma
interiore, almeno in parte, in-disciplinato, in-formale,
stuporosamente in-dominato, in una parola, originario.
In
ragione di questa originarietà è iniquo inscrivere le poesie e i
disegni dei bimbi nell’ermeneutica
della rappresentazione
che, soprattutto nella Modernità tecnico-scientifica costituisce,
all’opposto, il dispositivo più potente dell’intervento
settoriale della soggettività dominante, il modulo a priori della
forza di colonizzazione, disciplina per disciplina, del mondo. I
bimbi, dunque, non rappresentano, ma portano
a presenza, senza
raddoppi formali, senza volontà di valore aggiunto, la tonalità
emotiva del loro essere.
Devo
dire che, proprio per la potenza alternativa dei linguaggi dei bimbi,
quest’opera che ho tra le mani è un vero tesoro, perché ha del
sorprendente, anzi dell’originale.
E Dialoghi con l’anima
originale lo è in senso profondo, cioè in quanto è capace di
originare un nuovo modo di vedere i rapporti umani, un modo creativo
di stare al mondo, fatto di una solidarietà non tanto ideologica,
quanto sorgiva, ingenua, in grado di sposare l’innocente.
Innocente,
insegna Nietzsche, ben prima che un dato morale o del carattere è un
elemento ontologico: è l’immediatezza del proprio essere prima di
ogni calcolo della soggettività nuocente; l’in-nocenza
(non-nocenza) è l’incapacità di portare nuocimento da parte di
chi è nell’immediatezza della propria totalità, di chi, perciò,
è originariamente in comunione con se stesso. E in questo libro-cosa
c’è una comunione del tutto ideata e, insieme, fattiva,
concretizzata, dunque, possibile. Quest’opera sta a dire che
l’utopia
non è il non-luogo (ou-tòpos),
ma è il-di-più del luogo; è la realtà irriducibile alla sua mera
datità, è la vita che è più dell’esistenza, è l’anima che è
più della psiche, perché, semmai, è la psiche nell’Aperto della
parola ad-veniente e del segno e del colore donati.
4
Antonio
Nesci ci dice che anche fuori dai dispositivi di potere e dalle
macchine disciplinari è possibile fare mondo, è
possibile fare bello il mondo,
e farlo intenso e profondo. È possibile l’andamento opposto al
consumo del mondo, consumo che presuppone a monte l’andamento di
separazione e settorializzazione delle conoscenze e delle imprese. Il
nostro mondo ci riduce a mosse specifiche; sono sempre e solo una
mossa di un sistema stratificato di sezioni che mi sfugge, che non
posso dominare e rispetto al quale sono portato a sospendere il
giudizio critico e di responsabilità. Qui, invece, l’andamento è
opposto: si parte da un ambiente, un settore, i bimbi in un reparto
di malattie gravi e mortali, ma proprio per le caratteristiche del
mondo infantile e per la natura dei linguaggi poetici ed artistici,
si va a provocare la messa in gioco della totalità emozionale e
fantastica e relazionale dell’infanzia nel suo complesso. Qui la
mossa settoriale non deresponsabilizza, non isola, non alimenta il
consumo e la logica della Discarica.
Ho
in mano un manifesto
della possibilità di creare relazioni creative concrete di affetto e
di emozione reciproca tra bimbi diversi, tra bimbi malati e bimbi
sani, e questo è un
annuncio meraviglioso
nei nostri giorni attraversati dall’insensibilità verso le
diversità, dall’arroganza dell’egoismo e del qualunquismo, dal
malevolo e sciatto consumismo.
Rispetto
alla logica-mondo, che emargina il dolore e che isola la sofferenza,
anche quando enigmaticamente colpisce gli innocenti, rispetto al
mondo come emergenza e realtà bellica generalizzata, Antonio Nesci,
come Odisseo del giorno nello sfinimento di una guerra infinita –
ché tale è la prospettiva dell’oggi entro cui siamo nati e dalla
nascita ci battiamo– escogita un’ideazione formidabile e che
potrebbe rivelarsi vincente, un cavallo di Troia sacrale e
formidabile; perché come poeta avrebbe potuto, con talento
riconosciuto, parlare
dell’innocenza, ma
come stratega escogita lo stratagemma di fare
parlare l’innocenza,
di fare dipingere il mondo dall’innocenza e di mettere in relazione
queste due radicali forme espressive dell’infanzia.
Ma
questo non è tutto; geniale è l’idea di mettere in relazione e
riconsiderare come totalità
organica ciò che la
logica disciplinare
dominante divide e separa: l’infanzia malata da quella sana. Nesci
nella sua opera ha riprodotto un mondo come totalità possibile della
parte dolorosa, isolata, in eventualità di venire stroncata nel più
bello del suo sbocciare alla vita e dell’infanzia sana,
fantasticamente giocosa e immaginifica. E “un
mondo” – Derrida
lo afferma in Ogni
volta unica, la fine del mondo
parlando specificamente del lutto, ma questo vale sempre quando è in
gioco la vita e la morte – “è
sempre tutto il mondo”.
Un mondo, quello
della sofferenza dell’innocenza, proprio per la sua unicità, è
tutto il possibile modo di essere mondo del mondo in quell’unicità.
Escogita
e decide, dunque, di non parlare del
dolore dell’infanzia,
di non esercitare la fantasia sull’infanzia
colpita dalla paura e dalla malattia, ma di dare parole, colori e
segni alla fantasia dei bimbi immersi nel dolore. Il dolore in
generale, ma il dolore dei bimbi segnatamente, ben lungi da ogni
sentimentalismo, è un dolore universale, e assurge a dolore
teologico. Le domande
che induce sono, infatti, esistenzialisticamente, le più profonde ed
enigmatiche; sono domande che rivelano l’essenza stessa del
domandare filosofico,
rispetto al quale le risposte di congedo dal domandare non fanno, per
lo più, che consolidare il mero opinare.
5
A
monte di questa opera sta un colpo di genio strategico, perché il
prodotto appartiene all’impensato:
il dolore, le paure, i desideri dei bimbi trascolorano in fantasie
struggenti, acquistano con una naturalezza sorprendente lo statuto
ontologico del sogno, si trasmutano in immaginazioni stuporose e li
rigenerano in una fenomenologia fiabesca che, mentre è ancora tutta
da pensare, ecco è già qui provocante e seducente
come una cosa che coseggia, come un frutto gustoso e profumato e che,
sorprendentemente, porta dentro i semi della propria avventura.
Alcuni
esempi, alcuni versi di fenomenologia
sognante del dolore infantile
fiabescamente rinchiuso nell’enigma della degenza:
"Chiedo alla luna di illuminare la tua stanza
Per cancellare la paura del buio"
Eleonora
"Ho
chiesto al vento di portarti una brezza
Leggera e di farti volare là… dove stanno
Tutti
i tuoi sogni più belli"
Sara
"Voglio
che nei tuoi pensieri
Non
scenda mai la notte"
Elena
"Vorrei che le tue paure volassero via come
le
foglie in autunno…
verrà
presto la primavera e i tuoi sogni
fioriranno."
Eleonora
"Il
sole mi ha regalato il tuo sorriso…
Io
l’ho messo in un palloncino l’ho fatto
Volare… Adesso è tuo…"
Emma
"Quando
guardo la mia mamma,
penso al suo volo
perché
l’immagino aquila e mi sento libero
nelle
sue braccia e vorrei che mi portasse
nei
miei sogni lontani"
Enrico
"Sono una pallina
che
gioca nell’aria
e
fugge per paura di restare ferma
ho
paura della mia stessa paura…"
Eleonora
6
È
un libro-cosa
che si dà da pensare, che chiede condivisione e cioè innanzitutto
ascolto.
L’ascolto esige una conversione e un cambio di prospettiva
incredibile rispetto al tempo tutto registrato sul consumo di
velocità. C’è bisogno per l’ascolto di un tempo rallentato che,
guarda caso, è ben più consono al tempo che la malattia impone ai
bimbi della lunga degenza. Nell’ascolto, e aggiungerei nel silenzio
(dei telefonini e dei
televisori e dei videogiochi, tanto per cominciare a dare nome ad
alcuni dispositivi di precettazione delle cose e di riduzione delle
cose ad oggetti) si potrebbe cogliere il messaggio poetico,
trasfigurato, trascolorato di bimbi che vivono nella paura del loro
male il quale li sovrasta, immobilizza i loro piccoli corpi e,
insieme, toglie ai loro grandi sogni l’onnipotenza del desiderio e
la potenza della realtà.
Lette
così non poche di queste poesie divengono strazianti per la loro
illuminante carica rivelativa dello stupore fin fiabesco della vita e
assai esigenti nella loro richiesta di essere rilette, ripensate
insieme, messe in mano ad amici per un passa-parola capace di
ricostituzione di realtà.
Eccone
alcuni frammenti:
"… io
amo il giallo che è come il giorno,
… la
notte, invece, ho paura di sognare
la
mia malattia…
pensieri
confusi che parlano di me,
timida
e chiusa come una conchiglia
trovata
in un giorno di gennaio
fra
i sassi del mare."
Sharon
"…io
che voglio volare
fino
a stancarmi,
volare
sulle nuvole paffute come la faccia di Mario…
Il
mio nome non mi piace perché mi sento sola
Non
s’incontra mai nessuno che ha il mio nome
Solo
il cielo… il mare."
Azzurra
"Se
io fossi un fiore vorrei essere una rosa rossa
Che
quando sfiorisce diventa farfalla…
e
alla sera prima di addormentarmi
dico
buona notte a mia madre
e
con il ricordo costruisco quella rimasta in Eritrea
e
anche a lei dico buona notte con un bacio…
e
mi piace immaginare di essere in alto per vedere
le
cose piccole, così posso sentirmi grande."
Lewam
8
Un
esempio, dove la bimba, che si trova dentro al bosco dei lupi, si
trasforma in fata e diviene la potenza dello stupore del mondo,
ché tale è la fata nella sua essenza, e dove, quasi non bastasse,
senza soluzione di continuità, la fata diviene l’oggettivazione
della sua stessa potenza creativa: il desiderio di divenire tutti i
bimbi cioè il mondo intero. La bimba diventa la fata con le ali e
con la bacchetta magica rosa che è la forma stessa della grazia del
mondo nel coseggiare delle cose, libere dalle paure del mondo.
Ed
ecco che la bimba, così d’incanto, ricrea la realtà e tutto il
suo potenziale di paura in mondo bello da vivere e in vita bella
da mondeggiare; i lupi, i sassi che ostacolano e sono durissimi,
le frecce si trasmutano in bimbi, in bolle di sapone e in fiori. Il
rapporto con la madre esplode come un mondo di doni e di bellezza, la
madre che è paradigma di ogni relazione amorosa e promuovente sulla
terra – il mondo che ogni bimbo si aspetta di essere chiamato a
vivere.
E
c’è tutta la paura delle notti in ospedale esorcizzata
nell’onnipotenza metamorfica del desiderio di ricreare il mondo
senza più paure e senza l’angoscia di essere divorata dai lupi –
angoscia realissima come temibilissimi sono i lupi che solo gli
adulti non vogliono vedere perché temono l’enigma
aggressivo della morte:
"La
mia mamma dipinge
anch’io
dipingo boschi e fate e lupi
poi
divento fata e bambini…
Questo
è il bosco dei lupi…io sono
la
fata con le ali e ho la bacchetta magica
rosa
e trasformo i lupi in bambini
e
i sassi in bolle di sapone
e
le frecce in fiori.
Regalo
fiori gialli alla mia mamma
che
è bella cento volte.
È
una fata più grande
mia
madre è il sole, io la luna
e
faccio venire la notte, così i lupi
rimangiano
i bambini
e
poi
io
trasformo i lupi
ancora
in bambini."
Elettra,
9
Gli
adulti per lo più pensano di avere l’esclusiva dello sguardo
analitico della realtà e dunque di possedere lo sguardo
essenziale; gli adulti rivendicano lo sguardo scientifico
sul bimbo, che, anzi, pare a loro per lo più distratto, immerso nel
gioco, vagante nel suo mondo irreale, fluttuante nel fiabesco. Ma lo
sguardo scientifico non è lo sguardo essenziale; la lunga malattia e
la degenza forzata nella clinica prodigiosamente inverte le parti
fino a dotare il bimbo di un punto sorprendente di penetrazione e
acume totalizzante. Il bimbo non ha più mondo esterno alla madre e
non la può più perdere d’occhio un istante, neppure quando dorme
o pare distrarsi. Il suo è uno sguardo ontologico che la osserva
anche quando lei non lo guarda e che vede nello sguardo di lei il suo
stesso infinito desiderio di volare via dalla stanza chiusa ed
enigmatica dell’ospedale, e sente che l’essere dei due esseri è
sempre più proprio il medesimo desiderio di entrambi, di volare
via, la madre col bimbo, il bimbo con la madre:
"Quando
guardo la mia mamma,
penso al suo volo
perché
l’immagino aquila e mi sento libero
nelle
sue braccia e vorrei che mi portasse
nei
miei sogni lontani"
Sogna
di essere il più forte degli esseri viventi e di sgominare, anzi di
mangiare tutti gli esseri cattivi, compresi, inconsciamente, ma in
modo poeticamente rivelativo, tutte quelle malvagie e prolif(i)eranti
cellule cancerogene che gli fagocitano il sangue e glielo fanno
andare in acqua.
"Io
amo gli animali e mi piacerebbe
Essere
un Tirex, il più forte… vorrei essere il re
Di
un esercito di dinosauri carnivori,
mangerei
i più cattivi"
Ma
ecco che l’onnipotenza del sentimento è ancora la più profonda
fra le potenze del bambino, addirittura più complessa e totale della
stessa fantasia, che pure è così salutifera, perché è per la
fantasia che ogni metamorfosi è alla portata di mano e ogni
contraddizione oggettiva è risolvibile in una permutazione fiabesca
di tono. Tuttavia il sentimento, in un solo apparente ripiegamento,
in realtà si tratta di un suo approfondimento, anche se contrastato
rispetto al mondo fantastico puro, continua:
"ma
se dovessi
davvero
scegliere vorrei restare bambino
per
mia madre, che è bella come un fiore,
come
un tulipano
dai
colori di cielo e di sole,"
E
continua l’inno alla
bellezza che il primo
Platone ben sapeva essere l’idea cardine e la potenza che muove la
melodia del mondo e le armonie dell’universo. Nel Simposio
ritorna come un
ritornello la relazione radicale di amore e bellezza. E il
bimbo poeta-filosofo
continua con l’inno all’amore della bellezza e alla bellezza
dell’amore, inno che pur straziante fino all’indicibile per la
madre che ha tra le braccia la sua creatura compromessa forse
radicalmente, è il balsamo più prezioso e salutifero che un bimbo
possa donare a sua madre – vero e proprio testamento
inverso:
"mia
madre resta la più bella…
il
tulipano colorato di fantasia,
l’aquila
dei miei voli
e
la vorrei stringere forte e gridare il mio amore…
e
di quanto la amo, e dire che resta la più bella
più
della stessa Alessia… la bambina che gioca con me,
e
che a volte mi fa arrabbiare."
Enrico
10
Un
elemento di fascino rapinoso di questa poetica sorgiva è l’innocente
libertà di esprimere e significare prima e al di là
dell’ingombrante presenza del Soggetto forte, consapevole, tutto
reduplicazione del reale, tutto calcolo operativo.
Qui
siamo in assenza di quel Soggetto coloniale la cui lucidità sulle
cose è sempre speculare e speculativa. L’io che barluma ha la
sostanza dei sogni, la filigrana dei desideri.
Qui
la sorgiva non è neanche recuperata dal labor
limae del silenzio e
del distanziamento dalla chiacchiera del reale, che pure caratterizza
un aspetto saliente del poeta adulto.
Qui,
come nel sogno, la realtà si dà immediatamente
identica a se stessa,
e la forza e la potenza del verso non sono il frutto della conquista
intellettuale, non sono il punto d’arrivo del travaglio
dell’artificio dell’arte.
Sono
piuttosto parole tanto potenti quanto indifese, sono sentimenti tanto
prorompenti quanto inermi, e la consistenza di questi mondi è la
preziosa, perfetta delicatezza delle bolle
di sapone. Guai
toccare queste parole. Cambiare anche poco è perdere tutto. In
questo senso portano in sé stesse il
sacro.
Ecco
alcune bolle di sapone, alcuni frammenti o orme del sacro:
"Abito
a Cirò Marina…e la mia casa è vicina al mare.
Voglio
bene alla mamma
Perché
profuma di mare,
è
bello il profumo del mare
e
quando lo sento
mi
tuffo nelle sue braccia,
sento
il mio cuore che dice
ti
voglio bene mamma."
Antonio
"Nel
pozzo dei miei desideri
riflessa
canta la luna.
Vicino a me
Mia
madre, la mia felicità."
Sulamita
Nel
frammento di poesia che segue (accidenti!), dove l’aquilone non può
volare a causa del filo troppo corto, sembra quasi che la bolla di
sapone non riesca a staccarsi dal soffio senza scoppiare. Liberare
/ la mia anima, infatti, a causa della
mancanza di filo, può intendersi, più che come realizzazione,
compiutezza, perfezione, come sconfinante bisogno di un’altra vita.
"…sono
triste per questa malattia,
ha preso troppi attimi
alla mia vita
e mi sento un aquilone
legato ad un filo
troppo corto
non posso volare
dove io voglio, dove
vorrei liberare
la mia anima…"
Federico
In
questa bolla di sapone tutto è alla deriva e c’è il mondo
rovesciato e barluma alla fine l’impossibile possibilità
dell’amore; c’è solo, insieme totale e dimesso, il desiderio di
un frammento amoroso di vita quotidiana, il sogno di infrangere la
solitudine della malattia:
"…e il vento profuma
di rose,
le stesse che ho
regalato a Chiara
in un giorno lontano,
lo ricordo
come fosse oggi, quel
giorno,
ho chiamato Chiara e ho
sussurrato
“ti voglio bene”,
ed io,
rosso come la stessa
rosa
e con il cuore che
batteva veloce,
ero emozionato,
innamorato…
a volte penso a Chiara,
qui nella mia solitudine
penso alla mia mano
nella sua, mentre,
senza parlare,
guardiamo un film…"
Federico
L’esperienza
del sangue colora tutto di rosso, la vita e il mondo di questi bimbi
sempre alle prese di flebo, prelievi e cruenze. Anche questa
zuccherata bolla gronda di sangue, ma in essa tenace fa capolino una
spericolata immaginazione, dove la speranza fa tutt’uno con la
fiabesca potenza della magia, del miracolo della liberazione dalla
malattia. Allora, la mamma che è dolce come lo zucchero può ridare
una vita dolce da vivere.
"È rosso il mio colore,
mi ricorda il sangue,
la vita, ma se devo scegliere
tra il rosso e il verde
scelgo il verde perché
è la speranza
così anche la mia
mamma
può diventare una maga
e fare le magie.
Lei è dolce come lo
zucchero."
Vanessa
11 Nella
poesia Il cielo è irraggiungibile c’è tutta la
claustrofobia della degenza e il senso della perdita dell’Aperto,
del cielo, del movimento della vita, del tempo del gioco e
dell’esplorazione del mondo.
Sogno
ad occhi aperti e desiderio si risvoltano dall’interno l’un
l’altro in una straziante evidenza esistenziale di impossibilità
di essere il proprio corpo. In questa poesia di Giulia, una bimbetta
che la malattia impaccia e blocca, i movimenti fondamentali del
correre, del saltare, del giocare insieme i giochi dinamici dei bimbi
di tutti i tempi e di tutte le latitudini della terra – talmente
naturali i movimenti del corpo che tutti danno per scontato senza
neppure avvedersene – sono la realtà del sogno e il sogno di
realtà.
"Il
cielo è irraggiungibile e molto lontano
perché non si fa toccare …
Essere
libera…è quello che mi manca
vorrei
essere un cavallo
che
corre, corre e non si ferma mai…
…un
cavallo perché io ho sempre avuto
problemi
fisici, non ho mai potuto correre
come
gli altri, fare le cose che fanno gli altri,
correre
come gli altri è il mio sogno…
…il
cielo è irraggiungibile,
lontano
da me, forse perché non riesco a vederlo
abbastanza,
forse perché non riesco a toccarlo
e
avrei voglia di essere come un cavallo
che
corre continuamente."
L’impossibile
felicità di poter passare un giorno con Federico, mano nella
mano, è già di un desiderio trasognato ad occhi spalancati, ma
dove prende inizio la caduta degli dèi dell’onnipotenza del
desiderio e dove barluma la macchina della consapevolezza etica:
l’intrasferibilità (tanto eticamente nobile quanto ontologicamente
straziante) della malattia in un’amica.
"avrei
voglia di essere qualcos’altro,
di
immaginarmi un giorno da poter passare con Federico
mano
nella mano e camminare
e
cantare magari una canzone che dica
viva
la vita…
…
Eppure
se dovessi cambiare
Non
so se metterei una mia amica al mio posto
…lei
soffrirebbe, morirebbe più di me…"
Giulia
12
La
presenza onninvadente della malattia nello spazio e nel tempo della
degenza finisce per incrinare la fiducia nell’onnipotenza della
mamma, a liberare gli spettri del terrorifico e del mostruoso, alberi
del terrore che aggravano la malattia di ulteriore sofferenza. Si
instaurano così piani inquietanti di riflessione e di
argomentazione.
"Qualche
volta faccio sogni brutti,
chiamo
la mamma e dice che sono solo sogni
e
che non esistono brutti mostri e neppure
alberi
del terrore, ma io so che gli alberi
sono
senza foglie e hanno gli occhi e la bocca
e
se ne stanno sempre fuori… a fare paura alla gente."
Davide
Casa
volpaia
12
settembre 2008
Lorenzo
Barani
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I MIEI TRENTADENARI
NCE, Forli - 1990
Conosco abbastanza bene Lucio Zinna (per sintonia di tenerezze disilluse, io credo, insieme ad alcune scontrose analogie di carattere) per sapere che lo scrittore siciliano, autore tra l'altro di un inquietante romanzo-verità nel quale si adombra l'ipotesi che Ippolito Nievo possa essere finito dolosamente vittima della propria mazziniana e già allora anacronistica dirittura morale, non potrebbe mai adattarsi alla funzione di presentare un autore nuovo per pura civiltà di mestiere, senza essere convinto della giustizia della propria azione padrinale. Ciò va detto a merito di Antonio Nesci, autore calabrese da parecchi anni residente a Modena, che Zinna tiene appunto a
battesimo per il volume di poesie edito dalla NCE, dal suggestivo titolo testamentario “I miei trenta denari”. Lucio Zinna offre la sua attenta, e suggestiva, lettura della poesia di Nesci, individuando in essa il tema centrale della compressione (esogena, e quindi di fatto oppressione) dell'autenticità del sentire: La poesia di Antonio Nesci ruota attorno ad un elemento centrale, che tuttavia non si presenta come tale, ma che tale diventa, di fatto, in quanto ricorrente (ed in maniera a volte insistita) nelle pieghe stesse della silloge: la compressione dei sentimenti, in una civiltà massificata e consumistica) come la nostra. E allora: La compressione dei sentimenti - e dei sogni - a cui l’individuo, soggetto (nella spirale produzione-consumo, nella rincorsa ad un benessere materiale contrabbandato quale garante di una qualità della vita...) e la dispersione/ diluizione del naturale impulso ludico-fantastico..., covano dentro inavvertite, rendendo brumosa la circostante atmosfera. E' il dolore, sempre, che riscatta l'uomo ad ogni caligine: Fino a quando non insorga, fievole e via via più prepotente, la consapevolezza della fondamentale innaturalità di una siffatta condizione esistenziale...(Ho venduto / la libertà a un mercante di sogni; in cambio / mi ha dato un cielo di cartapesta). All'uomo, rimangono in mano le monete del baratto, i trenta denari che sono, e non sono esattamente, quelli della tragedia iscariota: sono, dice il poeta, i "miei" trenta denari, con una piena assunzione, già in titulo, di una responsabilità in prima persona. Sono crudele emblema di quel baratto con cui si è creduto di poter svendere i sogni per i cieli di cartapesta. E, con i sogni, si è barattata anche la nostra innocenza primigenia, con quel che ne consegue: i grandi messaggi d'amore, che segnano tappe decisive nel cammino di questa povera umanità più propensa a perdersi che a redimersi; la fallace possibilità di poter vivere senza motivanti illusioni. Come dire: senza poesia. E cioè: Zinna pone l'accento sopra una sorta di ossimoro esistenziale, secondo il quale sarebbe l'ineffabile sentimento di perdita della poesia a spingere Nesci, fra stasi (di ripensamento) ed impennate (liriche ), alla ragionata funzione del poetare, ove la parola poetica - benché - sia sempre ed opportunamente essenzializzata -va liberandosi. Si de-comprime, articolandosi in un più azzardato (ma anche limpido) gioco di metafore. La ricchezza della poesia,noi sappiamo, consiste precisamente nella proposizione di una complicità fra l'autore e il lettore, con quest'ultimo sollecitato ad essere coautore dell'atmosfera proposta da chi scrive. Una poesia che solleciti in tutti coloro che leggono la stessa posizione transferale non esiste o, qualora esistesse, sarebbe una poesia perfettamente inutile. E la poesia di Nesci ha il pregio principale di sfuggire, per la densità dell'atmosfera proposta, al rischio della piattezza interpretativa.
Ad esempio, rispetto alla lettura di Zinna, io non riesco a vedere quali sogni Nesci abbia venduto, per ottenere quali cieli di cartapesta. Sembra invece che i sogni non possano essere indirizzati a nessun baratto, per la confusione circa un qualsiasi cielo da ottenere. Non ‚un caso, se la silloge come
traccia indicativa i versi di Omar Khayyam – “Quel tanto che a bere ti basta, ed a mangiare e a vestire,/ cercalo pure, che in questo ancor sei scusato./ Ma il resto tutto‚ vano, e vuoto, e tu bada bene/ a non venderti via la vita preziosa per questo”. Che ‚ pronunciato estremamente impegnativo, perché estraneo alla cultura cui Nesci sembra appartenere: secondo la quale, la vita preziosa deve essere spesa precisamente per cercare “il resto, dal momento che il bere ed il mangiare ed il vestire, garantiscono a Salomone i gigli del campo, che verranno concessi in sovrappiù. Fra queste contrapposte massime di saggezza, l'intelletto rimane in una posizione di stallo, agitando i propri sogni nell'incapacità di indirizzarli ad un concreto oggetto del desiderio. Così, l'atmosfera tensiva viene ad essere esistenzialmente particolare: l'errore, sempre e comunque, vendere i sogni; non perché questi non siano spendibili, ma perch‚ qualsiasi cosa acquistabile sarà nel baratto inadeguata agli struggenti imperativi del cuore. E allora, l'unica ricchezza possibile‚ il mantenimento della condizione di non svolgimento dei sentimenti: ‚ questo non già come conseguenza della massificazione, ma come prerogativa inalienabile dell'uomo. Poesia da viaggiatore nevrotico, insomma: per il quale non importante la meta da raggiungere, ma la vitalistica soggettiva sensazione di essere in viaggio. La meta raggiunta ‚gi perdita di questa sensazione, ed ‚ già dolore. Al punto, che ogni traguardo propone una condizione di smarrimento, di nuove imperative coordinate da ricomporre (Restammo noi, noi soli/ a confabulare/ l'intreccio o l'abbandono/ nel presto domani,/ Il ragno tesseva frenetiche / mappe di fame./ Sfogliati/ dal gioco,/ restava la voglia./ Morsi di mela,/ nidi di vipera./ Restammo/ -tra pezzi di storia-/ a confabulare/ cosa volevamo fare). L'atmosfera vitalistica dell'essere in percorso¯ non concede stasi, né la riposante percezione del proprio animo appagato di poesia. Se l'unica de-compressione possibile,dice Zinna e questo ‚ l'essenziale,sembra essere la parola poetica che si svolge, mi sembra altrettanto vero che la de-compressione non può mai essere totale: altrimenti, sarebbe agita e risolta, e l'uomo si ritroverebbe da capo, senza sapere
cosa fare, smarrito nella percezione della finitezza emotiva dell'agito, di fronte al sempre infinito riproporsi del desiderio. Così, la silloge procede con tono di sempre più vigile autoanalisi e cosciente assonante durezza espressiva, pure fra ripensamenti di tenerezza e tentazioni di abbandono totale. Ed ‚ una poesia initinere, sembra, dalla quale ‚ lecito attendersi altri frutti: quando comparirà nel cuore e nella mente, riguardo ai sogni (non ‚ questo, il percorso dell'uomo ?),
l'accettazione della propria sconfitta e con essa l'ironia, tuttora fieramente assente in questo campo di poesia appassionata.
Non può essere che così.
Rossano Onano
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NOTE PER LA BALLATA DELLE OCHE
C’è un’età che gli antichi romani chiamavano del lasciare le noci (delinquere nuces), quella in cui si era ormai cresciuti e s’abbandonava il gioco, rendendosi conto con stupore un po’ doloroso che non si poteva più tornare indietro, era la tristezza dello scolaro che denunciava Marziale. La vita però concede sempre, in ogni stadio, uno stratagemma per rientrare a osservare seppure in uno specchio un po’ deformato quel mondo socchiuso: la fantasia. Ecco che improvvisamente non si è più soli o stanchi, tutto brilla di possibilità desiderabili come addobbi di natale. In questo clima dolce amaro mi sono accostata alla decina di poesie di Antonio Nesci dal curioso titolo complessivo di sapore celtico(la ballata richiama alla mente la ballata del vecchio marinaio di Coleridge, l’oca per i celti era simbolo dell’aldilà e guida di pellegrini, ma anche simbolo della Grande Madre dell’Universo, l’ultimo volo finale, e ucciderla come fa Parsifal con il cigno(oca selvaggia) nella foresta, che accoglie l’angoscia della perdita, si dimostra segno d’inqualificabile immaturità). In realtà la ballata in questione è un insieme di memorie totalmente “mediterranee”, a volte persino di colore localistico o folkloristico, basti pensare alle mareggiate che tornavano all’ovile, l’olio profumato di rose e l’aglio, la bambola vinta conservata ancora nel cellophane, poesie libere in versi e spirito, dedicate all’estrusione del sogno, del sorprendente favolistico, storico, urbano, mitologico e biblico, tutte facce di dadi lanciati su quel gran tabellone a spirale sinistrorso ch’è il gioco dell’oca, di probabile origine italiana, allusivo di quello della vita, con i suoi simboli tanto evidenti, ponte, torre, pozzo, prigione, serpenti, scale, locanda, scheletro, labirinto “della scelta del cammino”. Opzioni, sviamenti, occasioni di crescita spirituale. La corsa è a perdifiato, le spezzature o la parola onomatopeica sono inciampi del rivissuto o movenze di danza estemporanea, quello che conta è portarsi verso il centro, senza oltrepassare la casella n.90. Quante oche abbiano fatto raddoppiare il punteggio al misterioso giocatore non è chiaro, e a cosa corrisponda l’ultimo numero del gioco nessuno lo sa, un po’ come che cosa contenga la stanza 101 nel gran romanzo “1984” di Orwell. Più che il giudizio universale mi piacerebbe che fosse la scoperta del mistero della vita. L’uscita dalla cecità. Eppure è assai toccante quel che dice Borges in un’intervista: “Quando sogno, non sono cieco”, e parla del paese della sua infanzia, Androgué, a pianta labirintica, fonte di meraviglia: il labirinto, costruito perché qualcuno ci si perda, è per lui simbolo inevitabile della perplessità. Il percorso dedalico di Nesci ha più dell’istinto del colorista che mescola piani su piani sovrapposti, in modo convulso, dadaista, ricordi a voci d’oggi, anche cupe, anche critiche verso la società o il dio dimentico di noi, favole come “Alice nel Paese delle meraviglie” e “Pinocchio”, con Geppetto assediato dalla solitudine, a cowboy e indiani, conquistadores a tornei medievali, dame e cavalieri sempre in armi. E’ tutto un protendersi verso il limite sensoriale e chi legge prolunga volentieri il gioco ricostruendo ostacoli e aiuti assolutamente personali. Ricorda, rivede, riascolta, riassapora, accarezza di nuovo. Bastano due dadi, l’alea. La fortuna. A questo vagare dell’anima è d’altronde sapientemente portato dalla prima poesia (la mia preferita, la più visionaria in senso fantastico, solo in apparenza risolta e quindi sconcertante). Come svegliarsi di colpo dopo uno spaventoso temporale: il sogno ad occhi aperti è introdotto dal quasi onnipresente tempo imperfetto, che ricorda il tempo verbale delle fiabe(“Sembrava un gioco per ragazzi”), e s’incendia di colore bianco(“spazio bianco”) a segnalare il flash emotivo. L’imperfetto e il bianco formano l’ordito e le indicazioni allegoriche d’origine eterogenea sono le matasse con le quali l’autore ha filato il suo tappeto fatato. Egli non è qui un cavaliere romantico, il suo pellegrinaggio è più ariosteo e niente affatto templare: la sorpresa, l’inganno, il disordine dei sentimenti e i fallimenti che intralciano il passo sembrano rappresentare uomini e donne in carne e ossa, atmosfere, desideri veri travolti in liquide immagini della mente, e travolgenti a loro volta, a cascata: le torri crollano, le locande chiudono, i ponti si spezzano, i pozzi si prosciugano. Quasi un destino di continuo fluire caotico, una fatalità dietro l’altra per un “vincitore senza bottini”(XIII) nell’epoca d’antieroi in cui viviamo, inseguito dai fantasmi di una cultura industriale ereditata e in deposito. Il centro, l’unità, è però lì che aspetta.
Antonella Jacoli
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MAHAN
(Il posto degli asparagi selvatici)
Sullo stile, le tecniche etc...
La forma è un fluire ininterrotto, immediato che segue tempi rallentati, ripetuti, ossessivi di un'ossessione appunto: è un flusso di coscienza poetica.
Ecco perché, forse, questa impressione che subito prende alla lettura: l'eccesso. Che direi il segno più caratterizzante del lavoro.
......, infatti, una totale assenza di scansione sintattica, di punteggiatura riproduce l'affastellassi di emozioni, riflessioni, ricordi, ri-evocazioni: quel poco di strutturale-logico rimane si frantuma nei silenzi dentro: versi fra i versi, in quegli spazi bianchi che danzano: suoni avanti e indietro, proprio come in un polimorfismo continuo, una metamorfosi che bene rende il messaggio della fatica di afferrare un senso esatto ed univoco della realtà; come in un gioco di prestigio, che è poi, forse, la direzione di questo fare pena. Non a caso, spesso, ci sono versi interi, o parti di verso che possono essere interpretati sia legandoli a quanto precede, in un senso, sia a quanto segue, in un altro: (ad es. a pag. 65 "sarebbe ma non è così" si riferisce all'affermazione "c'è scarsa voglia di credere" si riferisce "all'intenso fuoco di pioggia", o lega il contrasto il successivo "guardando il reale fare" con il precedente "intenso fuoco"?)
(Ma gli esempi sarebbero molti altri). E' evidente che il lettore ha il suo preciso ruolo di dipanare un’interpretazione.
Ecco perché affermo che la mia lettura è certamente solo mia. Quasi ad ogni canto, io so di avere scelto un filo tra molti possibili.
E' poi un testo dove l'eccedere prende la forma di un'ubriacatura barocca: metafore arditissime, anzi non più metafore, ma identificazioni analogiche ("abbaio felice" p.24, "le facce che indossi" p. 30, "sei l'aquilone del mio avido azzurro"), con tutte le varianti di giochi metonimici ("mare che naviga da sé" p.9) di sineddochi continue, di sinestese estreme ("pelle taciuta nascosta all'ascolto delle mani" p. 9; "tramonti che ti rendono affamata" p.38, "sapore tra il vederti tra il mancarmi" p. 11), di un’aggettivazione ridondante, frastornante, con tutta la complicazione delle antitesi, degli ossimori, delle anafore echeggianti. Il senso, pur quello aperto polisemicamente della significanza poetica, è così continuamente traslato altrove: slitta da un referente all'altro, si sfaccetta, si muta, a volte anche si perde, in un'esplosione unica surreale, alla Dalì. Incredibilmente sono proprio i tanti simboli (dalle valigie bianche ai cicli di cartapesta) a creare, nel loro continuo riapparire, punti di riferimento, boe intorno alle quali decidere la rotta. Ne emerge perfettamente quell'immaginario che il poeta afferma di dover sovrapporre (o contrapporre?, o porre adiacentemente al reale?) alla vita "per non morire", che io credo sia poi da identificare col suo fare poesia, con quella che una volta si diceva la radice dell'ispirazione.
C'è un dire che spesso sovrabbonda, eccede appunto: sia nel senso di frequenti "in più" da un punto di vista strettamente linguistico (ci sono inserti prosastici colloquiali: "per intenderci" p. 64; "vero?" p.55, ci sono ripetizioni semantiche, non strettamente necessarie al senso poetico: "il fatto dei denti sulla mia pelle a mordere" p.47; ci sono espressioni di "gergo", "mi buttava bene" p.47, in mezzo ad espressioni alte etc..), sic nel senso di una ripetizione/ripresa di temi/espressioni:
ma tutto questo, credo, vuole rendere l'idea di uno scorrere, quasi incontrollabile, della vicenda interiore, dove il poeta è quasi succube di un "dire" ossessivo che lo trascende.
C'è un continuo richiamarsi, nel riproporsi di temi, emozioni, immagini, simboli, tra i vari canti, proprio come in una sinfonia; molti canti, poi, terminano solo graficamente, perché lo stesso motivo finale è riproposto come inizio del canto successivo: "all'immagine di un te..."XXX/di te" soave marinaio" XXXI.
Le sintesi più intense e poeticamente per me migliori, quasi graffianti, epigrafiche, si trovano spesso proprio nei versi finali dei canti: "Sapore tra il vederti tra il mancarmi" p.11, e parlo con questi piccoli laghi/"divenuti sogni pesci acquari che io sento in più, di cui sopra)/ sono le quattordici e fremo" p.16; “so adesso so di un asse inclinato e di lancette/scomposte nel giro della vita" p.25, tu sei quella dei capelli neri/quella che grazia o uccidi un io alla volta" p.37, "ma resta sempre il fatto dei denti sulla mia pelle" p.47, "senza te con me altrove" p.62, "scorre la vita nelle vene dei sassi" p.67
Parte Iª
Il posto degli asparagi
Che dovrebbe essere il luogo dell'evento, dell'incontro. Dovrebbe, perché in realtà non avviene mai.
I) infatti si apre subito con uno spostamento ossimorico, che segue fin dall'inizio la qualità di tale incontro:
il "giorno" (concreto, proprio nell'assenza di altre determinazioni se non quel "mio" che riferisce al soggetto) è inseguito/sostituito da una "notte" (ricordo attante, perché inebria ancora) che, pur già passata è assurdamente più concreta: è "sapore. Il giorno diventa "pensieri", platonicamente elevato/spostato ad un altrove, dove avviene, avverrà l'ossessione di una ripetizione, qui annunciata da quel "come assassini", che fa di quel punto (l'incontro) il centro dello spazio e del tempo, ma uno spazio e tempo astratti.
E qui subito appare lei.
"Ma", dice il poeta, "ma tu sei viva"! Perché quel "ma"? Sembra quasi un'affermazione per toglierla dall'astrazione del luogo.
Una definizione più precisa di tale vita, si ha più avanti, al XIII canto (p.21): "ho inventato molte cose per giustificare il mio dire d'essere vivo ed ora sono vivo mi sento vivo in te pensiero inatteso"! Ma già qui (I) si può capire: lei è "viva", ma nel silenzio della "pelle taciuta nascosta all'ascolto delle mani"; Viva, cioè, in una negazione/assenza, in una negazione/silenzio. Ogni altro rumore è pure inesistente: il "canto" è spostato altrove dal vento, il "suono", nominato e impossibile, è "di foglie". Nel IV (12) dirà: "no non servono orecchie per sentire" e nel IX (17) " sono in un altro giorno di assenze le tue assenze".
Ancora elementi di concretezza sono in quell'ossimorico "questo (che, quindi, è qui adesso) impossibile (che, quindi, non può essere) mare", che già presenta qui altri elementi sconcertanti: "che naviga da sé"(sia per lo spostamento metonimico, sia per un'idea di movimento che lo fa, appunto, impossibile); e poi quell’inventato", come dichiara apertamente l'io-poetante. Ci accorgeremo, procedendo nei canti, che anche tutti gli altri elementi, apparentemente concreti, spaziali sono tutti impossibili: il posto degli asparagi, il "cielo di cartapesta, da me inventato" (V), l’impossibile camera" (XIV).
La voce stessa di lui è negata, niente più gridi ("per gridarti amore"): è di nuovo il pensiero che sostituisce la voce: "mi si riempie la bocca al solo pensiero". Peraltro la voce ha, di per sé, una funzione d'astrazione: l'incontro, l'evento è ridotto nel IX a "codice nuovo della mia vita" ed è "codice della tua voce", quindi un insieme di sogni già astratti, convenzionali, divisi/mediati da una voce/altra, interpretante univocamente. Lei diventa spesso solo voce (VIII - IX), o parti separate da ascoltare, ma parti che in realtà non parlano, non ascoltano: "piccoli laghi", "pesci" (VIII).
Voce che diventa, sostituisce la carne: "la tua voce va surrogando ogni immagine ogni apparire in questo aspettare abbracci con carne viva" (IX). Già qui, nel primo canto, non sono i corpi "intrecciati", ma i pensieri.
E l'ebbrezza non è per la "lei" concreta, ma per l’immaginare te".
Nel IV dirò che il "sorriso" di lei, lui lo parla, lo scrive, lo legge.
Questo luogo dell'incontro, se anche è esistito in un'antecedenza esistenziale rispetto alla poesia, è qui un luogo dell'immaginario. E nell'immaginario "non c'è limite".
II) L'io-poetante dichiara la consapevolezza di questa sovrapposizione/sostituzione di un immaginario all'esistere ("non ridere del mio dire di una fantastica esistenza"), anche se non del tutto accettata ("devo smettere di restare tra gli antichi fantasmi"). Questa operazione di sostituzione, che passa per un "dire", è quella della poesia. Fin dall'inizio quindi il protagonista dell'evento si identifica col poeta, e la vicenda con un'azione, un fare poesia. "Ora c'è il canto", dice.
Lei è quasi sempre descritta o associata a qualcosa di volubile/volatile/metamorfico, come il "vento".
La realtà di lei è spostata in un sostituto, che poi viene ancora sostituito: lei è sostituita da un profumo e poi questo profumo è ancora sostituito da un diverso/altro profumo.
C'è poi uno spostamento temporale reciproco che annulla non solo la concretezza dell'ieri, ma anche quella dell'adesso: il "tuo profumo", di lei, è sostituito/annullato da quello di adesso di "ogni petalo"; il profumo di oggi "rivive", quindi si annulla nel richiamo a quello di ieri. Ecco perché il poeta può dire: "teorie di un vento".
La poesia non è il luogo di una indeterminazione, di una vaghezza, ma di un "possibile" (alternativo o trasfigurante la realtà) in movimento, "gioco", in cui soltanto però riesce a cogliersi il poeta ("mostrandomi ogni parte di me"), proprio nel divenire "percorsi", nell'inventare "pupazzi", "sogni", "fiabe"; solo qui c'è "dialogo in me stesso", solo qui è tolta "ogni maschera" che nasconde "l'io, identificato col "mio dire"(IV).
Questa dell'immaginario poetico è l'unica realtà che "c'è": la poesia è il luogo dove può accadere "questo cielo", che, come "questo" mare, è insieme nascosto (alla realtà) e aperto (nell'immaginario). Il luogo dove lei può convivere della sua dicotomia (lei libera ed imprigiona). Luogo, qui ancora, dove è possibile la ricongiunzione dei contrari. Ma più oltre l'opposizione comincerà a divaricarsi: "prigione" è la camera di lei, "aperte brecce" è il cielo di lui.
III) L'unione è sempre più fantasmatica.
E' quasi necessario che lei si assenti dalla realtà ("vorrei addormentare i tuoi occhi"), dal tempo ("cieca al tempo"), perché possa, "la tua ombra", seguirlo, amarlo, in una dimensione che è certo quella della poesia: la sola che può dire e dare consistenza ai nomi (nella realtà concreti e divisi: l'anticipazione della futura dicotomia), una consistenza di sogno (parole come fantasmi, così come sono "ombre" quelle che si rincorrono" nel buio, anche se concretate di sensi - "dita tese", "questi tasti" -, perché anch'esse diventano "parlare di te").
La scrittura è ripetizione di realtà vissuta altrove (ma già subito trasfigurata), "per scrivere cose altre volte dette", "e mi ripeto so di ripetermi", "in un'ombra che ossessiva ritorna"(VII), dove l'ossessione di questo ritorno è dichiarata come fine: per ri-amare, "ri-assaporare", che è qualcosa di molto diverso da un ricordo: è una reinvenzione/un "fantasticare", ma d'una intensità così viva da potersi sostituire alla realtà: "con mani con piedi"(VII). Si parla spesso di "sapore", in questo "rincorrere infiniti sogni", e ne viene meglio definito il rapporto, molto precario, con la realtà concreta: se c'è una realtà concreta all'origine del sogno che può prolungarsi nel sogno, però non può essere del tutto sostituita dal sogno: "sapore tra il vederti tra il mancarmi".
IV - V - VI - VII) Infatti, se può essere detto "l'amore" "per il suo semplice sapore", è invece indicibile ("che dire?") l'aspetto più misterioso dell'accadere, quello materico, dei sensi, che può essere solo indicato: "cose vive si mescolano ad altre più vive"(IV); quell'ossessivo/cieco verbo "sentivo" (non a caso al passato), ripetuto quattro volte in due versi(XII); quelle trasposizioni così fisiche ancora ("sapore", "fuoco dentro al tuo corpo", "zucchero filato", "dolce di viole"): dove però la sinestesia apre inderogabilmente un "buio" indicibile, "da lasciare agli occhi alle mani"(VI).
La poesia, se è altrove dalla fisicità del fatto, ha però un'orgogliosa affermazione creativa ("le mie labbra parlano", "t'ascolto...ricostruisco e ascolto... leggo e rileggo... rivivo con sogni"), anche se di un'altra cosa rispetto al fatto: perché le "bocche" sono "assetate di fiabe lontane".
Anche in (V) si vedeva questa prepotente affermazione dell'invenzione poetica: così la netta prevalenza della parola sui sensi evocati (la "felicità nel toccarti") è come inverata dalla parola gridata; così l'immaginario della poesia ("da me inventato") può costruire un mondo ("cielo di cartapesta") dove sono possibili miracoli. Ma è un mondo nettamente opposto alla realtà: "ma il cielo dov'è quello vero perdio quello d'aria di stelle"(V).
Ma forse opposto anche ad un immaginario che è di lei: nei sogni del "gioco", del teatro con sipari e luci", quindi con una connotazione di falsità/falsificazione, molto diversa dalla finzione/trasfigurazione del poeta. Che, per la prima volta, esplicitamente dice: "ho paura... di essere marionetta legata a un filo a un gioco".
Nel VII, infatti, nel pieno di una fisica rievocazione quasi realistica (una delle pochissime), interviene bruscamente un "tutto sembrava finire", che, se sta probabilmente a significare l'assolutezza di quell'esperienza fisica, però anche introduce la prima di quelle "note stonate" di cui si dirà più oltre(XI). La realtà può essere più menzognera delle finzioni dichiarate: "non so cosa ricordi", dice qui nel VII; e dopo dirà di lei: "che vivi... fra i sipari di teatri accesi ... non recitare con me", perché per lui l'immaginario è ri-costruzione, ri-vita, perché lui dice: "io non sono teatro", "io amo"(XI); "alla mia vita non serve un teatro per rivivere"(XV)
VIII - XIX) Due finzioni, due mondi mostrano ormai di opporsi:
- ciò che "deprime" lui, "l'infanzia"(XII) invece esalta lei ("ancora giochi a fare di te una piccola bambina");
- lei vive in una camera-teatro dai fissi oggetti e rituali (mute "bambole piangenti", musiche di morte, valigie bianche, scarpette da ballo), tra cui egli si sente come un "saltimbanco"; - l’infinito" di lei è "limitato", fissato alle pareti"(XIV); - per lui invece l'immaginario è un "de-scrivere" (un ricavare, un dedurre altro dalla vita), che non vuole fissare statiche memorie (ciò che invece lei ha fatto delle sua vita in quella camera): - lui vuole manipolare, aprire e riaprire (anche cambiare) ciò che ha esperito: con "sussulti di fiabe", dentro alle pareti dei miei sogni"(XIV)
La trasfigurazione del dire, del ripetere del poeta, non è priva di rischi: "frase fatta"(VIII) gli appare la ripetizione di ciò che è stato, mentre le "cose non dette" fanno paura perché potrebbero "consumare questo possibile urlare di un amore"(VIII). La poesia, se si dipana dall'evento, però è "lontano millenni"(VIII): la realtà ne è filtrata, deformata. Forse capita/trovata dotata di senso, ma anche, in un certo senso, perduta: "parlo con questi piccoli laghi divenuti sogni pesci acquari". La realtà dicibile , conosciuta, è solo in questo filtro che la trasforma: "mi manchi mi manca il posto dei sogni"(IX); "spremo lembi della scorza... per trovare il sapore della mia fata che trasforma"(X).
La finzione di lei ha invece, nei limiti della sua camera, sempre più i connotati di una "prigione senz'aria"(XIV). Se lui la trasfigura ancora in una "cenerentola", in "aquilone", in "mio insieme di fiabe... di sogni", eppure appare più volte un oscuro desiderio di morte, anche se ingiustificato: "come faccio a dire ora che ho voglia di morire?"(XVII).
E la consapevolezza progressiva intorno a quell'incontro: "io vivo attese... tra clandestine scuse dei trovarsi per caso nelle finzioni vivi siamo vivi in questo sogno"; "so adesso so di un asse inclinato e di lancette scomposte nel giro della vita"(XVII)
Comincia il presentimento della fine: "ho paura di non vederti più"(XVIII), e non è certo un rimedio: "t'appiccico dentro agli occhi"; la paura è di smarrirmi negli altri... nella strada divenuta coscienza del sole", la paura è del ritorno alla realtà.
Sempre più lei si fa evanescente, "mia antica fata", in qualche modo parallela al ricordo evanescente del padre; "mia sirena", che incanta, ma anche che perde.
Infine anche l'amore per lei, in qualche modo, la perde come preciso, concreto oggetto: "t'amo per il disperato bisogno d'amare me stesso"(XIX); "io recito per non dimenticare ogni mia parte confusa in te".
Ma "inutile dire che i sogni muoiono sempre alla luce di un sole".
Parte IIª
Quando l'irreale trasforma
XXI) Ci è detto subito di un tempo trascorso, d'un cambiamento: siamo nel "dopo solo dopo".
I sogni "maledetti" sono stati interrotti, mentre il poeta aveva ancora da "dire tante cose"; c'è l'urgere del dolore: quei luoghi di sogno sono diventati "luoghi graffiati" "dal mio avuto". La consapevolezza della loro evanescenza ("sbornia di un desiderio", in una costante "paura e solo paura di uno strappo netto alle mie ali posticce", "il logorabile mio castello di fate"), non diminuisce il dolore.
XXII) L'interruzione dell'evento, dell'incontro, non ha però cancellato il sogno trasfigurazione del poeta, ma "che fare ora di questi miei sogni e del mare inventato?". La confusione tra il sogno di prima e di dopo, tra il sogno e la realtà è grande: "i pensieri... azzannano le cose rimaste inutili vuote molte non le ritrovo altre sono uscite dalla mente lontana". La situazione non si lascia delineare, poetare: "tutto acceca non dà parole".
XXIII) Il "ma" del canto successivo apre però una possibilità.
Il sogno può continuare nel suo ribaltamento, per dire della cenerentola che è diventata cattiva matrigna, per dire del nuovo veleno, per ripetere sogni divenuti "maledetti", perché "le favole hanno altre facce". Ora il gioco del "ritrovarmi... rivivere storie... ripetere... sogni" diventerà drammatico, nel segno della follia della "fede",
Quasi una preghiera labirintica (a chi rivolgerla?), diventerà ossessione, dove, se lei ritorna come cenerentola o fata turchina è però come in una mascherata, in una recita teatrante appunto; ma comunque lei è sempre accompagnata da mostri e orrori(XXX), oppure è vista come in un negativo: una biancaneve che vende veleno e tratta i nani come burattini, una fata turchina invecchiata (XXV); oppure decisamente un personaggio terribile (mangiatrice di "IO" (XXX), mangia fuoco XXXII, maga circe XXXIII "elena XXXIII), maliardo e ingannatore.
XXIV) Ma il ribaltamento comporta anche una diversa dominanza: tutto è rivissuto dal poeta, ma non come soggetto creatore (di mari, cieli inventati), ma come oggetto manovrato, marionetta mossa da altri: "si entra si esce senza sapere d'essere parte in scena d'essere legati ai fili"; la finzione di lei è assunta soggettivamente dal poeta nel suo ruolo di vittima.)
XXV XXIX) Ma qual è allora la realtà, qual è stato l'evento? Un amore "inventato nei canti di sirene" o "quello dei corpi? E' lo scontro tra due, entrambe possibili, concezioni della vita: nettamente opposte: platonica/antiplatonica. E' anche la contrapposizione tra il "bacio" di prima e il bacio "dell'acido sapore di follia "di adesso, tra ciò che non è più, ciò che era (che era sogno): è lo scontro dentro le cose stesse, è nel divenire delle cose, nel loro mutare, pur restando se stesse.
Non è scomparso l'evento, non è scomparso; si è solo mutato, come brutalizzato, abbassato: claustrofobica la stanza di riti vuoti e infantili, teatranti ripetizioni; la bella musica è ora solo sogno mortifero, le valigie sono "vuote d'anima", contengono falsi copioni; lei è maschera, dalle molte facce sceniche che moltiplicano altrettanti "io" da far recitare nella propria commedia(XXVIII) (facce che lei "copre - scopre - nasconde" XXIX); lei diventa una precisa camille di cartapesta(XXVIII) che nello stesso tempo non è più ben identificabile perché si è sfaccettata troppo, esattamente quanto si è moltiplicata nei suoi temporanei favoriti; "mi stai morendo sto morendo(XXVI) è un grido disperato non più tanto per una fine, ma per una mutazione che non si sa riconoscere.
(Così il poeta se si ostina a districare la "vera" immagine di lei, tra i colori di biacca e quelli di fata turchina(XXIX), l'unica realtà appare come il "fantasma dei miei desideri", o, con una punta di sadismo, una fanciulla "con mani - giunte occhi - chiusi in attesa di una morte", fanciulla trasposta quindi in condizione di vittima. Comunque è un fantasma che non cancella l'altro, preponderante immagine: "tu sei quella dei capelli neri/quella che grazia e uccide un io alla volta".)
XXXI Dopo la consapevolezza ormai raggiunta di una dicotomia totale (lei non è il sogno che lui le aveva creato intorno,
XXXVI lei mastica, non capisce il suo dire), negli ultimi canti della sezione prevalgono immagini di morte (i "fiori neri", il profumo di vuoto"), dove l'incontro è ormai un reciproco azzannarsi (se prima era lei che masticava lui, ora è lui che ha "denti" per la "fame di te" XXXIV) e il nuovo problema è detto apertamente: "ed ora non ho che nervi...il mio tempo dove dovrò ritornare moltiplicando il tu tempo per due"(XXXIV), "dove porterò queste scarpette trovate"?(XXXVI), dove e come potrà ritrovare un altro tanto grande sogno, perché "ti amo ancora", perché non ho un’altra parte come quella che mi hai dato tu", perché, "sei la mia fata turchina", perché "sei tu... il luogo che annoda la mia follia al vivere", perché "tu sei il mio esistere di maschera tu sei l'esistere a tutti i costi", incredibilmente, nel ribaltamento di lei, l'illusione del prima, il sogno che lui ha ri-costruito di lei, si è come staccato dalle maschere di lei, dalla sua metamorfica performance, e si è andato saldamente a congiungere a quell'immaginario in cui il poeta ri-costruisce, ri-vive la sua realtà. Il sogno di lei si è già fatto poesia, non è più cancellabile. Ma il poeta si interroga" su come riuscirà ancora a dargli fiato, voce: "ma quanto costi se oggi scrivo", dice, alla fine. E ancora "quale è la parte che mi compete? (XXXVI)
Parte IIIª
Poesia di un errante
Qui centrale è infatti una riflessione dolorosa, attraverso l'amarezza dei ricordi e la loro attrazione, per ricostituire nel distacco, la propria autonomia critica e poetica (dell'immaginario), la propria "tenda".
XXXVII) Perché si era "quasi abituato all'idea di vivere nei teatri", dell'immaginario di lei, "cui aveva sovrapposto o fatto coincidere" la mia tenda tra il fare e il dire" (quel suo luogo "ideale" XXXVIII, tra "il sonno e la follia" XXXIX in cui lui costruisce, anzi ri-costruisce la realtà, che è poi il luogo della sua poesia), è difficile staccarsi dal sogno di lei, anche se duro, anche se lei "matrigna di te stessa" ( che uccide le proprie maschere sogno) è ormai già fissata anche nell'immagine di un carnefice, di un "lupo" XXXVIII che divora "carne viva".
XXXVIII) Ma c'è ancora "un infinito" a cui tendere, anche se motivato dalla "paura d'avere consumato il proprio tempo", che nasce proprio nel "punto critico" di "rottura tra la carne e l'anima", da un sogno che è stato "un sonno di agonie", dal rifiuto sia di un "vivere irreale" che di un "vegetare con erba".
E si accompagna alla "idea di una uscita" dal bozzolo (anzi già dal "baco da seta/principe azzurro"), di un’apertura dell'utero del mondo", di "un'evasione dalla cella", che è certamente una rinascita.
E' di nuovo la forza della poesia che "sorprende" nella sua capacità di dare "movimento" alle figure, di ricomporre "quei fili", anche contro "le sbarre" che tentano di impedire ogni inventiva ogni immaginazione", anche contro "i mostri dalle acide grida".
XXXIX) E proprio a partire da lei, direi quasi come oggetto d'indagine, in quanto oggetto di poesia, ha inizio una riflessione specifica sulla poesia:
1) nel sogno, nella ricostruzione ("mia cenerentola") c'è sempre un aggancio ed una concretezza ("sanno di donna le tue labbra") che farebbe parlare di realtà, se la realtà non fosse già in sé contraddittoria ("ma tu sei elena?");
2) ma non si tratta nemmeno di una costruzione puramente astratta "l'origine non si ferma al foglio scritto";
3) se "non è il luogo a dare origine", è però l'emozione di quel luogo/concretezza: "il battito il fremito" anche se delle paure. La poesia è un "piantare tende tra il sonno e la follia", è la raccolta non di "cose", ma del loro "ridere triste", della loro emozionalità, è un guardare il mondo "che si sfascia alle mille teorie";
4) è la ricerca di sé, della propria identità (ma io chi sono per..."), della propria autorevolezza a dire; ed ecco le prime risposte: non è un'identità fisica, "concreta", capace di calpestare la terra “perché la terra richiede piedi... non ali" (e le ali sono la connotazione/simbolo proprio della poesia); neppure però è un'identità del tutto astratta ("e io non ho neppure ali per volare", anche se qui è da intendere in contrapposizione all'immaginario teatrante di lei; inoltre da non dimenticare quelle "ali bruciate" del XXXIV); è comunque un'identità di parola poetica : "eppure dico", parola capace di trasfigurare, riannodare, ridare "fantastico infinito", ridare senso, riordinare. Anche se si tratta di "sogni amari", anche se "resta sempre il fatto (ma la poesia si alza sul fatto!) dei denti sulla mia pelle".
XL) Lei diviene "fatto" lei diviene altro dalla poesia, "deridi e non capisci le parole", "la tua sete non è uguale alla mia sete", lei è gelo, fissità evanescenza e nello stesso tempo analizzata nei più minimi particolari: "non trovo nulla che mi attrae". Quel "tu" che pure gli resta, incapace di emotività, non riesce più a coincidere col sogno della poesia: "non regge il dire": (lei non ha nemmeno consistenza di oggetto nel suo trasformismo: "non basta affacciarsi vivi", in apparente movimento, per lo "specchio" di un'analisi).
XLI) Occorre passione "dentro le vene" dentro sempre e solo dentro, per "ascoltare il silenzio", per arrivare a quel "mare" essenziale, dove si riassume l'eterno ciclo vitale ("un giorno - notte morte - vita" "ieri - oggi" "ero - sono") e la coscienza di esso ("il piacere di sapersi").
XLII) (Il ricordo reale perde spazio, la poesia recupera le "emozioni" "scordate": è la scrittura che conserva: "basterebbe rileggere un pezzo del mio quaderno")
XLIII) Certo ancora l'esigenza di avere concretamente si affaccia "non maturano mai questi frutti nei miei sogni" ma l'averla significherebbe "distruggere il mito - feticcio" (è importante che ora comunque il mito sia abbassato a "feticcio") che se ora vola ancora come un airone (ma per la verità "con spoglie d'airone") in fuoco di passione, potrebbe però "morirne per acqua", nella delusione del fatto. I "mostri" infatti degli eventi, dell'accaduto, soffocano il canto e il volo della poesia.
E come evocato da questi mostri, un preciso ...della memoria, quasi un archetipo personale del proprio soffrire, che viene appunto da un vissuto concreto, da un "uomo" che nel "suo amare stringeva troppo forte", soffocava. Nel tempo in cui fuggire era solo cancellazione ("non avevo più memorie") e non costruzione alternativa, non risposta di poesia.
XLIV) (Anche se il mito di lei si è frantumato, ha perduto il suo fascino (restano "rifiuti", "polvere"), il vuoto che hanno lasciato le "labbra - fragole" è violenta assenza. Questa mancanza, che ha un preciso sogno (avere spostato nel passato, nei "luoghi del ricordo" l'evento, sentire il sogno di lei come "frastuono") è una "prigionia" ancora, ma in cui lei non ha accesso; "non entrare camille". Non c'è spazio più per l’azzurro" "impossibile" di lei, dove l'aquilone della libertà interiore del poeta non si slanciava sul filo);
XLV) Lei ora solo questo gli evoca: impedimento, sonno mortale, prigionia: "fermo sul chi vive" (con l'intensità del suo doppio senso: la vita come blocco e la tensione ad un sogno che sembrava fuga dalla realtà, riproposizione di quella fuga/libertà vissuta da ragazzo nell'infrazione delle regole). Se lui cerca di nuovo la fuga (perché "la terra quando troppo bassa non può fare al caso mio"), è però quella della poesia: "ho inventato un mare... d'inchiostro per scrivere - descrivere (de - scrivere, direi con un senso di sottrazione della realtà) il dentro di queste mura il dentro dei vetri".
Questa trasfigurazione della realtà è "un peccato"? questa illusione?
C'è stata la possibilità, la volontà di un sogno, che si muoveva tra la sua trasfigurazione ("l'irreale trasformare di vita") e la trasformazione di lei, che era invece una frantumazione all'infinito di sé e della realtà, fino alla cancellazione. C'è stato uno scontro tra queste due trasformazioni: "il sogno non regge ad altri sogni". Il sogno di lei è quello svanito: egli sa ora "di non averti mai avuto".
Lei/o lui mentre era nel suo sogno, era "corpo senza ali".
XLVII) (La dicotomia tra i due sogni è spalancata: lei è incredula al suo "dire", lei ha altre trasfigurazioni della realtà (il dio mozart, la valigia bianca, le scarpette da ballo: tutte teatrali). Il sogno di lui è la poesia, "ma io scrivo per vivere": senza perfezione (perché la perfezione porta a morire, come il "suo" Mozart scrisse il perfetto Requiem morendo), con errori "di proposito", perché così è possibile inventare una realtà alternativa non troppo reale e non troppo falsa (come il teatro).
XLVIII) (I grandi valori/le idealizzazioni, alla maniera di cavalieri arturiani) non gli bastano, per accettare affrontare, essere nella realtà: "io non sono parsifal non sono cavaliere di nessuna tavola - ordine"; tutt'al più può identificarsi nell'eroe trasgressore "lancillotto" (trasgressore della norma - realtà), che ama "ginevra" nella (cattiva coscienza".)
IL) E' "un dire tutto mio"; che non gli fa osare più la realtà, che lo fa ritornare "in balia dei sogni": ma non si tratta di una totale e perenne sostituzione del reale, non è una "resa smarrita in bandiere bianche";(ne potrebbe il suo sogno: cade troppo spesso rispetto al modello - lancillotto.)
L) "Questa carta intrisa d'inchiostro" "che ripete tracciati rivissuti da poco" forse potrò aiutare anche lei a guardare finalmente "il dentro delle cose". (Anche se fascinosamente e terribilmente lei mostra d'essere una nuova Salomè che porta a morte "un battista qualunque", un dicitore di verità.)
LI) (Perché le parole/suoni del poeta sono per lei "parole - coltelli"; contro la sua nordica fredda immagine di teatro, lui recita sul teatro dei propri miti, caldi mediterranei.
LIII) Lui è estraneo al mondo sogno di lei: nel sogno di lei c'era "la paura del dover restare in eterno in queste bianche mura a parlare di te senza te con me altrove").
LV) Il suo luogo è "la mia testa scucita sulle illusioni ottiche delle parole delle forme costruite ancora in posti sbagliati", (Anche se il rimpianto di lei resta (a cosa servono queste mura bianche se non posso dipingere ciò che tu sei"). In un "oggi"/"presente" cosparso di lacerti - ricordi senza respiro. Il rimpianto è di un sogno dove "mi lascerei cadere dentro per ritrovarne la storia di un coraggio morente nel morir d'amore";
LVI) rimpianto che si popola di ossessioni, "fiore malato", bocche avide di miele amaro"; la realtà da affrontare, la realtà della cecità). "Siamo tutti colpevoli", perché nessuno osa "chiedere", perché "c'è scarsa voglia di credere" a chi dice e fa la verità: questa "bocca parlante di un grillo" nel suo "reale fare" è il poeta.
LVII) Un grillo che tra il suo "essere già stato" e il suo "dovere ancora essere vivo", deve fare i conti con i "brandelli" di un sogno che, per quanto "lacerati", non sono innocui, se il sogno è morto rimorto almeno cento volte" il rimpianto è come "un voler ricostruire il cordone ombelicale".
LVIII) Ha perduto molto il quel sogno: "mi amavo... perché sapevo d'amare " ed ora "canto cose che non erano le cose sperate". Potrebbe sembrare solo un "interiore ritmo di resa". Ma "io resto altrove", nella poesia, "con la mia sete con la scusa di un impossibile volare", perché se pure tutto è fuga per paura dal proprio essere, comunque "scorre la vita nelle vene dei sassi".
Milena Nicolini
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